Gli zucchini col fiore ingrediente base della Scarpaccia e dolce e salata
Ecco un altro piatto tipico della cucina Toscana e più precisamente della Lucchesia: è la Scarpaccia.
Il suo nome è poco invitante, quell’accia finale di sicuro non la rende appetibile, ma basta assaggiarla per dimenticare il dispregiativo. Il suo etimo è poco indagato, ma nella zona d’origine, come ci raccontava Domenico Acconci nella pagina del Tirreno online, se ne danno due versioni: la prima sostiene che il nome sia legato al fatto di essere un piatto povero, quindi cosa di poco conto, come una scarpa vecchia; l’altra versione sostiene che il nome derivi dal fatto di essere schiacciata, sottile e crostata come la suola di una scarpa vecchia. In effetti la Scarpaccia si presenta anche spessa e consistente.
Dalle fonti antiche e secondo l’osservazione dell’antropologo
Con particolare riguardo al paesaggio toscano
di Giovanni Caselli
Sorprenderà gli ignari sapere che il paesaggio dell’Italia classica era assai meno ricco di alberi e boschi di quanto lo sia oggi. Nelle aree più densamente abitate il paesaggio veniva letteralmente spogliato per trarne legna e carbone. Non vi era casa degna di questo nome senza un bagno (non l’eufemismo di oggi che significa ‘cesso’, ma un vero bagno), non vi era vicus privo di bagni pubblici, e questi erano riscaldati con enormi quantità di legna.
Naturalmente, nei luoghi meno accessibili e dai quali era difficile il trasporto della legna, le foreste erano estese e anche impenetrabili. Si pensi alla nota Selva Cimina, che sui monti Cimini costituì il confine naturale e un vero baluardo fra Roma e l’Etruria per secoli. Il Pinus picea, che cresce in montagna, era la conifera più comune per il largo uso che si faceva del suo legno. Anche il pino si piantava assieme al cipresso presso la porta di casa e presso i cimiteri in memoria dei morti; la sua resina era mischiata al franchincenso perché gli somigliava nell’odore e costava meno. La pece, di cui i Romani facevano largo uso, si otteneva da questo pino. … continua a leggereLa genesi del paesaggio classico (quarta parte)
Capraia isola (Li). Denominazione del comune costituito dall’lsola di Capraia, che ha un unico centro abitato dal quale si sale alia Fortezza di San Giorgio, eretta al principio del ’400 dai Genovesi per difendere gli abitanti dalle incursioni barbariche. Capraia e un’isola interamente vulcanica, tutta montuosa, culminante nel M. Castello (447 m), con costa quasi ovunque rocciosa ed inaccessibile. Gia nota ai greci ed ai Romani (Capraria, Caprasia come si legge in Varrone nel De re rustica: si quas alimus caprae a capris feris ortae, a quis propter Italiam Caprasia insula est nominata. Nel sec. IV diviene asilo di cenobiti, monaci cristiani che vivevano in comunità; fu conquistata dai Saraceni nel 1005, appartenne poi ai Pisani e quindi ai Genovesi. Il suo nome deriva certamente da capra col suffisso -aria, toscano -aia; già Repetti osservava: «Non è improbabile che cotesta isola traesse il nome di Capraja dalle molte capre, che tuttora si trovano costà al pari che in altre isolette piu deserte dell’arcipelago toscano» . Diversa ipotesi aveva formulato Alessio (G. Alessio, La base preindeuropea) ponendo all’origine del toponimo una base mediterranea karpa ‘roccia’; sostiene l’etimo da capra anche Schick (C. Schick, La Capraia e la Gorgona, «Archivio Glottologico Italiano») anche sulla base del riscontro del nome della vicina Gorgona che pure si configura come uno zootoponimo
Gorgona (metà XVIII secolo)
Gorgona. Isola del Tirreno, la piu settentrionale dell’arcipelago Toscano, a 37 km da Livorno, al cui comune appartiene; ha aspetto montuoso e dirupato. Occupata già anticamente da monaci, rimase ai certosini fino al tempo di Pietro Leopoldo il quale ne rivendicò il possesso; attualmente è abitata da famiglie di pescatori. Ricordata in fonti classiche come “Urgo” (Plinio Naturalis . Historia), deriva il nome da una base gorg– con il significato di ‘capra’ (cfr. il greco yopyoveiov scudo di Atena con la testa di Medusa in aspetto caprino), perciò è una denominazione analoga a Capraia ( CaprAia Isola).
Un piatto antico, se diamo fede alla leggenda, diffuso anche oggi in Toscana con nomi diversi nell’arco di pochi chilometri e la cui origine è contesa tra la Liguria e la Toscana.
Si tramanda che durante la battaglia della Meloria, nel lontano 1284, i Pisani della potente Repubblica marinara di Pisa furono sconfitti dai Genovesi dell’altrettanto potente Repubblica: le galee genovesi erano cariche dei vogatori pisani prigionieri quando furono sorprese da una improvvisa tempesta che ne allagò le stive in cui erano stati imbarcati diversi sacchi di farina di ceci e alcuni barili d’olio; fu così che la farina si mescolò e con l’olio e con l’acqua di mare. … Continua a leggereLa cecìna o torta o farinata di ceci
Archeologia industriale in Toscana La storia della famosa industria alimentare toscana inizia nel 1827 ad opera di Giovanni Battista Buitoni (1769-1841), che avvia con la moglie Giulia Boninsegni un piccolo negozio di pasta in via Firenzuola a Sansepolcro, nell’allora Granducato di Toscana. … continua a leggereLa Buitoni di Sansepolcro
A Firenze in Piazza della Signoria c’è un palazzo, dalla mole imponente, conosciuto con varie denominazioni: Palazzo delle Assicurazioni Generali, Palazzo del Leone, sempre come richiamo alle Assicurazioni, Palazzo Lavison o anche, erroneamente, Lavisan o Lawyson.
Borbottoni, Piazza della Signoria prima che fossero abbattute la torre degli Infangati, la chiesa di santa Cecilia, la Loggia dei Pisani
In linea con il “nuovo decoro” della città che doveva diventare capitale, come sancito dalla Convenzione di Settembre del 1864 che prevedeva il trasferimento da Torino alla città toscana, molte antiche costruzioni furono abbattute e anche l’edificazione del nuovo palazzo comportò l’abbattimento, attorno al 1864, della torre degli Infangati, della Chiesa di Santa Cecilia e della Loggia dei Pisani, cosiddetta perché costruita dai prigionieri pisani nel 1364. Su progetto dell’architetto Giovanni Carlo Landi fu eretto nel 1871 in forme che richiamavano le strutture cinquecentesche dei palazzi delle maggiori famiglie fiorentine, con alcune varianti dettate dalle nuove esigenze e dai nuovi modelli costruttivi come la presenza di un quarto piano, rispetto ai tre, e un cornicione realizzato utilizzando la ghisa. Si imponeva sulla piazza con la bella facciata realizzata in pietra forte e il monumentale portone finemente intagliato e l’apertura di una serie di archi a caratterizzare il piano terreno da utilizzare come fondi per attività commerciali che furono inaugurate, nel 1872, dal caffè pasticceria Rivoire. Agli inizi del Novecento divenne proprietà delle Assicurazioni Generali di Venezia. Di recente è stato oggetto di risanamento conservativo: inaugurato nel 2012 con la nuova denominazione di Palazzo del Leone, è stato posto dal Gruppo Generali in locazione aziendale.
Ma perché ci soffermiamo su questa tipica espressione architettonica legata al periodo che vide Firenze capitale del Regno d’Italia?
In realtà il palazzo ha una collocazione importante in una delle piazze più famose nel mondo e anche perché incuriosiscono le sue diverse denominazioni e poi, c’è un altro interessante motivo:
c’è un discendente dell’antica famiglia dei Lavison, il signor Edoardo, che ancora cerca di scoprire il misterioso motivo dell’arrivo dei suoi antenati a Firenze e della costruzione del prestigioso palazzo dato che la loro storia li aveva portati a percorrere strade molto lontane dalla città, come lui stesso ha raccontato nelle pagine di tuttatoscana. Una pagina interessante della storia recente e documentata da una serie di momenti storici che il signor Edoardo Lavison ha messo gentilmente a disposizione nostra e dei nostri lettori:
La produzione di stoffe di lana del Casentino, dai caratteristici colori accesi, costituisce una tradizione che si perpetua nei secoli, fin dall’epoca etrusca e romana: abbondante è la documentazione che prova l’esistenza di antiche gualchiere situate lungo il torrente Staggia. Documenti del XIV secolo attestano che gli abitanti del castello di Palagio Fiorentino, come veniva chiamata all’epoca Stia, pagavano le tasse a Firenze con panni di lana. Con la stessa lana si tessevano le tonache dei frati dell’Eremo di Camaldoli e successivamente anche della Verna e i primi abiti realizzati non a caso erano piuttosto simili, per forma e per colori (“fratino”, “bigio” e “topo”), al saio dei francescani. … continua a leggere Lanificio Ricci – Stia in Casentino
Passando da via dell’Anconella, nei pressi di Porta San Frediano, ci imbattiamo in una costruzione dalle forme strane di cui non è facile intuire la funzione: è il gasometro (o gazometro) di Firenze ora adibito a ludoteca e centro di ritrovo.
Fra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento la zona del Pignone, sulla riva sinistra dell’Arno, vide la nascita di varie attività manifatturiere favorite dalla presenza dell’omonimo porto fluviale, così nel gennaio 1839 Leopoldo II concesse alla società francese Montgolfier Bodin la costruzione e la gestione dell’impianto destinato a produrre, … ContinuaIl Gasometro di Firenze
Siamo a Rapolano Terme, a pochi chilometri da Siena e a pochi dal fantastico paesaggio delle Crete senesi. Il luogo è incantevole, invita a fare passeggiate ed escursioni per immergersi in una natura incontaminata dove la mano dell’uomo ha disseminato coloniche di notevole bellezza che impreziosiscono l’insieme con la grazia e la leggiadria delle forme e dei colori, il giallo senese che si mescola e sovrappone in un ridente contrasto con il rosso dei mattoni che guarniscono gli edifici, in un paesaggio e agreste, con vigne e frutteti, e naturale con lecci allori e cipressi che ricoprono con le loro chiome verdeggianti un poggetto sulla cui cima s’intravvede la forma di un campanile e di ampi fabbricati. … ContinuaPoggio Santa Cecilia, un borgo abbandonato
cui aggiungiamo alcuni versi tratti da Antonio Pucci dal “Novello sermintese lagrimando” dedicato ad un altro 4 novembre del lontano 1333: incredibilmente le date si ripetono!
Tra vespro e la nona il fiume rompe gli argini e travolge i ponti:
E, poco stando, tra vespro e la nona,
si come per chi ‘l vide si ragiona,
il fiume ruppe, che si forte sprona,
ogni pescaia;
e fe’ cadere il ponte alla Carraja
[…]
I’ dico che non ero a meza via
A ritornare in verso casa mia,
ch’i’ udì dir che Ponte Vecchio già
per l’acqua rotto.
[…]
E riponendo verso l’acqua cura
(e questa ben li parve cosa scura!)
Vide venir per la fortuna dura
in una culla
O ver fanciul che fosse o ver fanciulla,
e non parea ch’ avesse addosso nulla:
chi le suol dar le cose e chi ‘l trastulla
or che ne fia?
Egli era vivo e tuttavia piagnia
E l’acqua forte nel menava via;
e poi di dietro a lui ratto venia
un greve legno!
[…]
Giù per quel fiume ch’era tanto rio
Più cose venner ch’io no le vid’io,
ma i’ ò scritto il vero da que’ ch’io
d’altrui ascoltai
Per l’Arno ne venivano e telai
con l’orditura, e capanne e pagliai,
e dietro a questo poi veniva assai
d’ogni legname;
iscope sciolte, ed anche con legame;
e una pieta fu pure ‘l bestiame;
ancor si vide molta lana e stame
ed alcun panno;
persona non s’andò la notte a letto,
chi fuggì in alto palco e chi sul tetto,
piangiendo (forte), picchiandosi ‘el petto
ognun gridava
misericordia ciaschedun chiamava,
piccoli e grandi forte lagrimava.
Alluvione del 6 novembre 1864 in un disegno dell’epoca