di Alessandro Ferrini

Nel corso del Trecento, come nei secoli immediatamente precedenti, il sistema viario che in tempi recenti ha assunto il nome di Francigena, rappresentava, con i suoi percorsi ramificati, un collegamento frequentatissimo fra l’area franco germanica e Roma meta di pellegrinaggi per chierici, abati, nobili, mercanti cristiani di ogni condizione sociale. Un viaggio a Roma nell’arco della vita rappresentava un obiettivo importantissimo per ogni credente, come ancora oggi lo rappresenta La Mecca per ogni fedele musulmano.
Anche nel Decameron varie novelle sono ambientate in località situate lungo il tracciato, evidenziando così, indirettamente, la frequentazione da parte dei pellegrini e l’importanza come grande via di comunicazione.

A Pontremoli il primo paese che si incontra percorrendo la Francigena da nord a sud, appena si entra in Toscana, e a Radicofani l’ultimo che si attraversa prima di entrare nel Lazio, sono ambientate due novelle.
Faziuolo da Pontremoli è citato nella settima novella della terza giornata il cui protagonista è Tedaldo che, per amore di una donna abbandona la città. Così come in Lunigiana, la valle che percorre il tratto della Francigena dal passo della Cisa fino a Bocca di Magra, è in parte ambientata la sesta novella della seconda giornata e la quarta novella della prima giornata la cui vicenda racconta l’avventura di un giovane monaco:
Fu in Lunigiana, paese non molto da questo lontano, uno monistero già di santità e di monaci più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie potevano macerare. Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta assai bella, forse figliuola d’alcuno de’ lavoratori della contrada, la quale andava per gli campi certe erbe cogliendo; né prima veduta l’ebbe, che egli fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale. Per che, fattolesi più presso, con lei entrò in parole e tanto andò d’una in altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la menò, che niuna persona se n’accorse. E mentre che egli, da troppa volontà trasportato, men cautamente con lei scherzava, avvenne che l’abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui, sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano…
Il monastero cui il nostro autore si riferisce è probabilmente quello benedettino di Montelungo, nei pressi di Pontremoli, di cui oggi restano solo ruderi ma all’epoca importante tappa della via Francigena, quella che l’arcivescovo di Canterbury Sigierico nel suo Itinerarium indica come XXXII chiamandola Sancte Benedicte. Vi era anche annesso un Ospitale per i pellegrini gestito dai monaci benedettini.

Continuando a percorrere la Francigena verso Roma incontriamo Altopascio, importante stazione di posta lungo il cammino verso Roma. Qui c’era un famoso Ospitale gestito dai cavalieri del Tau e qui veniva cucinato un minestrone, chiamato Calderon d’Altopascio, che i frati offrivano ai pellegrini. Questa usanza era assai famosa tanto da divenire proverbiale e proprio in questo senso Boccaccio lo rammenta nella decima novella della VI giornata:
senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d’Altopascio
È la celebre novella in cui “Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell’agnolo Gabriello in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo” e il cappuccio unto e bisunto è quello del suo servo Guccio Imbratta.
Scendendo ancora verso sud arriviamo a Buonconvento, dopo Siena, altra tappa importante della Francigena. Qui, ospiti di una locanda, incontriamo Cecco Angiolieri e Cecco Fontarrigo, quest’ultimo perde tutto il suo denaro al gioco e anche quello che ha rubato all’amico Angiolieri:
Cecco di messer Fortarrigo giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l’avea, il fa pigliare a’ villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui, venendosene, lascia in camicia. (IX,4)
Infine è la volta di Radicofani situato fra il torrente Paglia e il Monte Amiata, la cui popolazione Ghino di Tacco fece ribellare contro la Chiesa:
Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri. (X,2)
Ghino di Tacco è ricordato anche da Dante nel VI canto del Purgatorio. Nobile senese la cui famiglia fu progressivamente privata dei possedimenti terrieri dalla crescente espansione del potere comunale. In seguito a ciò Ghino divenne un celebre brigante che stabilì la sua sede nel castello di Radicofani dopo averlo fatto ribellare all’autorità pontificia. Da lì svolgeva le sue attività banditesche, tra queste il rapimento dell’abate di Cluny ricordato nella novella.

Sempre nella stessa novella vengono menzionati anche i “Bagni di Siena”, quelli che oggi conosciamo come le terme di Bagno Vignone e San Filippo, già celebri fin dall’antichità e luogo di ristoro per i pellegrini.
Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l’abate di Clignì, il quale si crede essere un de’ più ricchi prelati del mondo, e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’ medici consigliato che egli andasse a’ bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con grandissima pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse.
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