di Alessandro Ferrini

Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».

E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».

«Oh!», rispuos’ elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.

Là ‘ve ‘l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.

Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi e rimase la mia carne sola (Purg. V, vv 88-102)

La battaglia di Campaldino è più volte ricordata direttamente o indirettamente da Dante nella Divina Commedia, battaglia alla quale lo stesso poeta partecipò fra le fila dei cavalieri fiorentini. A questo proposito è bene ricordare che in epoca medievale i cittadini erano chiamati alle armi in caso di guerra e dovevano equipaggiarsi a proprie spese. I meno abbienti andavano a piedi armati con picche o balestre e difesi dai palvesi, grandi scudi di legno su cui erano dipinte le insegne cittadine. I nobili e i più abbienti potevano permettersi di acquistare un cavallo e facevano parte della cavalleria i cui reparti erano spesso determinanti per l’esito della battaglia. Tuttavia procurarsi un cavallo e le armi adeguate di offesa e di difesa rappresentava un costo assai oneroso, Basti pensare che, secondo alcune stime, solo un cavallo da battaglia, robusto e ben addestrato, equivaleva al valore di una dozzina di mucche o al salario di quaranta anni di lavoro di un bracciante.

L’11 giugno 1289, il giorno di San Barnaba, nella pianura di Campaldino non lontano da Poppi, fu combattuta la celebre battaglia, celebre non solo perché ebbe grande risalto nelle Cronache di Dino Compagni e di Giovanni Villani e fu più volte ricordata nei versi della Divina Commedia ma anche perché contribuì a determinare l’egemonia delle città guelfe in Toscana e prima fra tutte Firenze.

Dopo la vittoria dell’esercito di Carlo d’Angiò su quello dell’imperatore Manfredi, figlio di Federico II, a Benevento nel 1266, quella di Tagliacozzo nel 1268 nella quale trovò la morte Corradino di Svevia e quella dei fiorentini sui senesi a Colle Val d’Elsa nel 1269, Campaldino con la sconfitta dei ghibellini di Arezzo segnò definitivamente il trionfo dei guelfi che poi inizieranno una feroce lotta fra bianchi e neri all’interno della loro compagine. La sanguinosa strage di Montaperti del 1260, che fece l’Arbia colorata in rosso, quando le milizie senesi avevano massacrato le truppe fiorentine rimaneva un doloroso, lontano ricordo.

In previsione dello scontro le città alleate di Firenze (Bologna, Lucca, Siena, Pistoia, Volterra, San Miniato, San Gimignano, Colle Val d’Elsa) inviarono aiuti militari ai quali si aggiunse una compagnia al comando di Aimeri di Narbonne inviata dal re di Sicilia Carlo d’Angiò. L’esercitò che marciò verso Arezzo ai primi di giugno era piuttosto numeroso per quei tempi, come ci riferisce Dino Compagni contava 1300 cavalieri e diverse migliaia di fanti. Inferiore anche se ben addestrato quello degli aretini che contava 800 cavalieri e alcune migliaia di fanti.

I comandanti fiorentini, tra i quali Vieri de’ Cerchi, Corso Donati e Guillame de Durfort, avevano stabilito di percorrere la strada attraverso il Casentino invece di quella più pianeggiante lungo la valle dell’Arno. La scelta del percorso era stata sofferta: alcuni propendevano per attraversare il Valdarno, strada più agevole che passava attraverso territori in gran parte assoggettati a Firenze, altri indicavano di percorrere il Casentino per sorprender i nemici nonostante il territorio fosse più impervio e controllato da castelli come quelli di Montemignaio, Romena e Castel San Niccolò, favorevoli agli aretini.

Quando i capi ghibellini, tra i quali il vescovo Gugliemo degli Ubertini, Guido Novello dei conti Guidi, Buonconte da Montefeltro, seppero questo, decisero di attendere il nemico allo sbocco della vallata davanti a Bibbiena invece di intercettarlo in luoghi più angusti del percorso e forse poter trarre vantaggio dalla geografia del luogo. Così quella mattina dell’ 11 giugno i due eserciti si schierarono sulla piana di Campaldino, nei pressi della chiesa di Certomondo; come scrive Alessandro Barbero, a differenza di quanto accade in epoca moderna, prima di iniziare una battaglia nel medioevo “i comandanti stabilivano una posizione difensiva, di solito appoggiata all’accampamento e ai carriaggi, e suddividevano le loro squadre di cavalieri in un certo numero di reparti o ‘battaglie’, decidendo quali impegnare subito e quali tenere di riserva, perché nello scontro le energie di uomini e cavalli si logoravano in fretta. I comandanti fiorentini selezionarono innanzitutto una forza di 150 ‘feditori’ destinati ad aprire lo scontro, fra i quali secondo la tradizione venne compreso anche Dante; i capitani di ogni sestiere scelsero i cavalieri migliori per questo compito, che era il più pericoloso …” (Alessandro Barbero, 1289. La battaglia di Campaldino, Laterza 2013)

Alle loro spalle venne schierato il resto della cavalleria tranne un reparto al comando di Corso Donati che avrebbe dovuto attaccare in un secondo tempo il fianco dello schieramento nemico. Ai lati la fanteria.

La carica iniziale di 300 feditori aretini scompigliò lo schieramento ghibellino e diversi cavalieri fiorentini furono disarcionati. La battaglia divenne violentissima poi la carica improvvisa della riserva al comando di Corso Donati che attaccò pur senza averne ricevuto l’ordine, scompigliò le schiere nemiche e alla fine il maggior numero dei fiorentini prevalse sugli aretini. I vincitori inseguirono i resti dei sopravvissuti in fuga verso Arezzo: l’esercito nemico era distrutto, notevole il bottino e molti i prigionieri dei quali sarebbe stato chiesto il riscatto.

Nonostante la disastrosa sconfitta gli aretini rifiutarono di arrendersi e l’esercito fiorentino strinse d’assedio la città devastandone i dintorni ma senza riuscire a far breccia nelle mura tanto che il “giorno dopo San Giovanni” i comandanti guelfi decisero di togliere l’assedio e rientrare a Firenze.

Articoli correlati:

Dante in Casentino

La battaglia di Montaperti nella Divina Commedia

La battaglia di Montaperti fra storia e leggende