di Luisa Gianassi

di Luisa Gianassi. La ricetta del cibreo mi ha richiamato alla mente la figura del “castrino”. In realtà da bambina, senza saperlo, ho gustato qualcosa di simile al cibreo. Anche se questo ricordo parla di circa 60 anni fa, è in realtà lontano un secolo e un millennio dal nostro “comune sentire” e quindi spero di non urtare la sensibilità del lettore, perché non possiamo giudicare il passato con gli occhi del nostro presente.

La ricetta del cibreo mi ha richiamato alla mente la figura del “castrino”. In realtà da bambina, senza saperlo, ho gustato qualcosa di simile al cibreo. Anche se questo ricordo parla di circa 60 anni fa, è in realtà lontano un secolo e un millennio dal nostro “comune sentire” e quindi spero di non urtare la sensibilità del lettore, perché non possiamo giudicare il passato con gli occhi del nostro presente.

Quando nel podere del Pian dei Poggioli arrivava Vasco Lotti, era un gran fermento di preparativi e per me, bambina di 6 anni, era un avvenimento. Il Lotti veniva da una famiglia di Barberino che vantava una tradizione di “castrini” fin dal 1700. Era sempre ben vestito e portava una consunta valigetta in pelle marrone con i ferri del mestiere. Tutti lo trattavamo con la deferenza dovuta ad un veterinario, anche se si trattava solo di una figura artigianale che con la pratica aveva acquisito l’abilità di castrare gli animali, cioè di togliere loro gli apparati della riproduzione in modo da renderli sterili. Le vittime predilette erano maialini di circa un mese, chiamati lattonzoli e i galletti.

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