Dal Viaggio in Italia
Wolfang Goethe fu grande amante dell’Italia e vi soggiornò a lungo a più riprese in occasione di quello che viene chiamato il Grand Tour, ossia il viaggio che i giovani aristocratici europei compivano nei luoghi più famosi d’Europa al termine dei loro studi . Il diario da cui sono tratte le pagine che seguono si riferisce al viaggio compiuto fra il 3 settembre 1786 e il 18 giugno 1788.

Visitò la Toscana di passaggio con una sosta a Firenze di poche ore, desideroso di raggiungere quanto prima Roma dove soggiornò a lungo.
Riportiamo di seguito le sue impressioni:
Loiano sugli Appennini, 21 ottobre (1786), sera.
Se oggi mi sia strappato io stesso da Bologna o ne sia stato cacciato, non saprei dire. Sta di fatto che ho afferrato con entusiasmo l’occasione d’una partenza anticipata. (Lo scrittore tedesco percorse il viaggio da Bologna a Firenze percorrendo la strada reale Leopolda, la Bolognese di oggi, SS65 della Futa, costruita pochi decenni prima dal Granduca Leopolodo n.d.r.)
22 sera.
Un altro paesello degli Appennini: anche qui mi sento felicissimo, perché corro verso la meta dei miei sogni. Oggi un signore e una signora a cavallo – un inglese con una cosiddetta sorella – si sono accompagnati alla nostra carrozza. Hanno delle belle bestie ma viaggiano senza servitù, e il signore, a quanto pare, fa insieme da palafreniere e da domestico. Trovano sempre qualcosa di cui lamentarsi … Gli Appennini mi appaiono come un interessante pezzo di mondo. Alla grande pianura padana fa seguito una catena di monti che si eleva dal basso verso sud a chiudere fra due mari la terraferma. Se queste montagne non si ergessero tanto alte e scoscese sopra il livello del mare, e non fossero tanto stranamente articolate da aver impedito nei tempi andati una maggiore e più costante azione delle maree, capace di formare pianure più ampie e più soggette ad alluvioni, questa sarebbe una terra stupenda col più mite dei climi, un po’ più elevata del resto del paese. Così, invece, è un singolare groviglio di dossi montuosi contrapposti gli uni agli altri; sovente non si riesce a distinguere in che direzione corrono le acque. Se le valli fossero meglio colmate e le pianure più livellate e più irrigue, si potrebbe paragonare questa terra alla Boemia, pur essendo il carattere delle montagne assolutamente diverso.
Non ci si deve però immaginare un deserto di monti, ma una regione ben coltivata, anche se montagnosa. Qui cresce molto bene il castagno, il frumento è bellissimo e i seminati già verdeggianti. Lungo le strade si vedono querce sempreverdi dalle foglie piccole, mentre intorno alle chiese e alle cappelle sorgono snelli cipressi. Ieri sera il tempo era nuvolo, oggi è di nuovo chiaro e sereno.
…

La mattina del 23, alle dieci secondo la nostra ora, sbucando dagli Appennini vedemmo ai nostri piedi l’ampia vallata in cui giace Firenze, incredibilmente fertile e disseminata di ville e di case a perdita d’occhio. Attraversai di gran fretta la città, vidi il Duomo, il Battistero. Il mondo che qui mi si schiude è del tutto nuovo e sconosciuto, e non voglio indugiarvi. La posizione del giardino di Boboli è deliziosa. Ne uscii altrettanto presto come v’ero entrato. (La città testimonia la ricchezza del popolo che l’ha costruita; ci si rende conto ch’essa ha goduto d’una serie felice di governi. In genere si resta colpiti dall’aspetto bello e grandioso che hanno in Toscana le opere pubbliche, le strade, i ponti. Tutto è allo stesso tempo solido e lindo, si cerca d’unire praticità, utilità ed eleganza, dappertutto si nota un’alacre solerzia.
Lo Stato pontificio, invece, sembra restare in piedi solo perché la terra non vuole inghiottirlo.
Ciò che l’altro giorno dissi potrebbero essere gli Appennini, lo è la Toscana: data la sua minor elevatezza, i mari antichi hanno fatto il loro dovere e hanno accumulato uno spesso sedimento argilloso, di color giallo chiaro e facile a lavorarsi.

Le arature sono profonde, ma avvengono ancora al modo primitivo: gli aratri non hanno ruote e i vomeri non sono mobili, sicché il contadino, curvo dietro i suoi buoi, trascina il vomere dissodando il terreno. Arano fino a cinque volte e spargono a mano poco concime, assai leggero. Infine seminano il grano, poi alzano delle sottili porche, in mezzo alle quali si formano profondi solchi in cui può scorrere l’acqua piovana. Il grano cresce alto sulle porche e i contadini vanno su e giù per i solchi a sarchiare. E’ comprensibile che si segua questo metodo dove c’è da temere l’umidità; ma non so spiegarmi perché lo usino anche in queste belle distese. Lo osservai presso Arezzo, dove si dischiude una piana meravigliosa. Impossibile vedere una campagna meglio ordinata: neppure una zolla fuori di posto, tutto lindo come fosse passato al setaccio. Il grano cresce molto bene e sembra trovare tutte le condizioni favorevoli alla sua natura. L’anno seguente semineranno fave per i cavalli, che qui non sono nutriti ad avena. Si piantano anche lupini, che già adesso sono d’un magnifico verde e in marzo saranno maturi. E’ germogliato pure il lino, che resiste all’inverno ed è anzi reso più robusto dal gelo.
Gli ulivi sono una pianta singolarissima: si prenderebbero quasi per salici, perdono anche il cuore del legno e la corteccia si spacca; nondimeno hanno un aspetto vigoroso. Anche il legno si vede che cresce molto lentamente e ha una struttura estremamente fine. Le foglie somigliano a quelle del salice, ma sono rade sui rami. Le colline intorno a Firenze sono tutte piantate a ulivi e vigneti; il terreno intermedio è sfruttato a grano.
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