Chi percorre la via di Rosano lungo la riva sinistra dell’Arno, in prossimità di via di Remoluzzo, vede comparire i merli di antiche torrette in pietra e laterizio: si tratta delle gualchiere di Remole testimonianza della fiorente industria laniera fiorentina nel lontano XIV secolo.
Sono ancora lì, ormai in disuso e in grande degrado, ma ancora presenti nonostante l’età ad attestare la loro storia lunghissima che si muove dal lontano 1327 circa fino al 1966, anno dell’ultima alluvione devastante del fiume, quando furono completamente dismesse e abbandonate non da quello che fu il loro ruolo originario ma di mulino da grano e frantoio.
Ma cosa erano le gualchiere e quale ruolo ricoprivano nella produzione dei “panni lani”?
Calendimaggio impazza per le strade.[…] E in queste circostanze
la paglia di Firenze è proprio quello che ci vuol.
Il cappello di paglia di Firenze è proprio adatto per tutte le evenienze. Per parlarsi, per amarsi, per baciarsi impunemente sotto il naso della gente.
Così cantava Odoardo Spadaro. Ma il cappello di paglia era già stato protagonista in altre opere: il maestro Nino Rota aveva messo in musica e rappresentato un libretto, proprio e della madre scritto nel 1945; “Un cappello di paglia di Firenze” si intitolava una commedia di Eugene Labiche del 1851con il titolo originale di “Un chapeau de paille d’Italie”da cui sarebbe stato tratto un film, muto, nel 1928 e diretto da René Clair.
Oltre alle rondini, sul tetto della grande casa del Pian dei Poggioli, nidificavano anche i passeri. C’erano decine di nidi riparati sotto i vecchi coppi in laterizio e spesso capitava che qualche passerottino implume cadesse nel prato sottostante. Era il mio babbo Guido che, alzandosi al primo albeggiare per sistemare la stalla, li raccoglieva e me li faceva trovare, come un dono, in una gabbietta dove avevamo sistemato un nido abbandonato, recuperato da un vecchio oppio. Io ero felice di allevarli a molliche di pane inzuppate nel latte. Aprivano avidamente il loro becco, esageratamente grande rispetto al resto del corpo. Li imbeccavo con un minuscolo cucchiaino che il babbo aveva ricavato scavando un ramoscello di sambuco. Non appena spuntavano le prime piume iniziavo lo svezzamento, prima con un pesto di insettucci e poi con la “beccatura”, il grano tritato risultato di scarto della trebbiatura sull’aia, così chiamato perché destinato come becchime al pollame. Quando iniziavano a volare aprivo la gabbietta ed assistevo ai loro goffi tentativi di librarsi nella stanza. Allorché le loro ali si facevano forti aprivo la finestra e dopo aver cosparso il davanzale con il loro becchime, li lasciavo liberi. Ad apprezzare la libertà impiegavano qualche giorno, ma poi spiccavano il volo e per qualche tempo tornavano a cibarsi sul davanzale. … continua a leggere Antichi mestieri: Cino l’arrotino
Una tradizione medievale che non si è mai del tutto persa nel tempo ma che ha sempre progredito e si è industriata sebbene, rispetto alle origini, non si svolga più lungo il corso dell’Arno, vero primo ed essenziale protagonista di questa attività. Acqua e tanta acqua era infatti necessaria per la conciatura delle pelli macellate e pertanto anche alcune zone della città ne avevano la privilegiata ubicazione: alle origini lungo il Ponte Vecchio l’Arte dei Beccai forniva la materia prima e a monte e a valle del fiume l’Arte dei Galigai, che assommava al proprio interno i diversi mansionari dei cuoiai: i conciatori detti Pelacani, i venditori di cuoio detti Pezzai e i doratori di cuoio e pelle detti Orpellai. La prima documentazione su quest’arte risale alla fine del 1200 e come ogni Arte aveva un santo patrono, Sant’Agostino, al quale ogni anno il 28 agosto faceva la consueta offerta all’interno della Chiesa di Orsanmichele.
Chi percorre la via di Rosano lungo la riva sinistra dell’Arno, in prossimità di via di Remoluzzo, vede comparire i merli di antiche torrette in pietra e laterizio: si tratta delle gualchiere di Remole testimonianza della fiorente industria laniera fiorentina nel lontano XIV secolo.
Sono ancora lì, ormai in disuso e in grande degrado, ma ancora presenti nonostante l’età ad attestare la loro storia lunghissima che si muove dal lontano 1327 circa fino al 1966, anno dell’ultima alluvione devastante del fiume, quando furono completamente dismesse e abbandonate non da quello che fu il loro ruolo originario ma di mulino da grano e frantoio.
Ma cosa erano le gualchiere e quale ruolo ricoprivano nella produzione dei “panni lani”?
Oltre alle rondini, sul tetto della grande casa del Pian dei Poggioli, nidificavano anche i passeri. C’erano decine di nidi riparati sotto i vecchi coppi in laterizio e spesso capitava che qualche passerottino implume cadesse nel prato sottostante. Era il mio babbo Guido che, alzandosi al primo albeggiare per sistemare la stalla, li raccoglieva e me li faceva trovare, come un dono, in una gabbietta dove avevamo sistemato un nido abbandonato, recuperato da un vecchio oppio. Io ero felice di allevarli a molliche di pane inzuppate nel latte. Aprivano avidamente il loro becco, esageratamente grande rispetto al resto del corpo. Li imbeccavo con un minuscolo cucchiaino che il babbo aveva ricavato scavando un ramoscello di sambuco. Non appena spuntavano le prime piume iniziavo lo svezzamento, prima con un pesto di insettucci e poi con la “beccatura”, il grano tritato risultato di scarto della trebbiatura sull’aia, così chiamato perché destinato come becchime al pollame. Quando iniziavano a volare aprivo la gabbietta ed assistevo ai loro goffi tentativi di librarsi nella stanza. Allorché le loro ali si facevano forti aprivo la finestra e dopo aver cosparso il davanzale con il loro becchime, li lasciavo liberi. Ad apprezzare la libertà impiegavano qualche giorno, ma poi spiccavano il volo e per qualche tempo tornavano a cibarsi sul davanzale. … continua a leggere Antichi mestieri: Cino l’arrotino
La ricetta del cibreo mi ha richiamato alla mente la figura del “castrino”. In realtà da bambina, senza saperlo, ho gustato qualcosa di simile al cibreo. Anche se questo ricordo parla di circa 60 anni fa, è in realtà lontano un secolo e un millennio dal nostro “comune sentire” e quindi spero di non urtare la sensibilità del lettore, perché non possiamo giudicare il passato con gli occhi del nostro presente.
Quando nel podere del Pian dei Poggioli arrivava Vasco Lotti, era un gran fermento di preparativi e per me, bambina di 6 anni, era un avvenimento. Il Lotti veniva da una famiglia di Barberino che vantava una tradizione di “castrini” fin dal 1700. Era sempre ben vestito e portava una consunta valigetta in pelle marrone con i ferri del mestiere. Tutti lo trattavamo con la deferenza dovuta ad un veterinario, anche se si trattava solo di una figura artigianale che con la pratica aveva acquisito l’abilità di castrare gli animali, cioè di togliere loro gli apparati della riproduzione in modo da renderli sterili. Le vittime predilette erano maialini di circa un mese, chiamati lattonzoli e i galletti.
Chi percorre la via di Rosano lungo la riva sinistra dell’Arno, in prossimità di via di Remoluzzo, vede comparire i merli di antiche torrette in pietra e laterizio: si tratta delle gualchiere di Remole testimonianza della fiorente industria laniera fiorentina nel lontano XIV secolo.
Sono ancora lì, ormai in disuso e in grande degrado, ma ancora presenti nonostante l’età ad attestare la loro storia lunghissima che si muove dal lontano 1327 circa fino al 1966, anno dell’ultima alluvione devastante del fiume, quando furono completamente dismesse e abbandonate non da quello che fu il loro ruolo originario ma di mulino da grano e frantoio.
Ma cosa erano le gualchiere e quale ruolo ricoprivano nella produzione dei “panni lani”?