di Luisa Gianassi

Oltre alle rondini, sul tetto della grande casa del Pian dei Poggioli, nidificavano anche i passeri. C’erano decine di nidi riparati sotto i vecchi coppi in laterizio e spesso capitava che qualche passerottino implume cadesse nel prato sottostante. Era il mio babbo Guido che, alzandosi al primo albeggiare per sistemare la stalla, li raccoglieva e me li faceva trovare, come un dono, in una gabbietta dove avevamo sistemato un nido abbandonato, recuperato da un vecchio oppio. Io ero felice di allevarli a molliche di pane inzuppate nel latte. Aprivano avidamente il loro becco, esageratamente grande rispetto al resto del corpo. Li imbeccavo con un minuscolo cucchiaino che il babbo aveva ricavato scavando un ramoscello di sambuco. Non appena spuntavano le prime piume iniziavo lo svezzamento, prima con un pesto di insettucci e poi con la “beccatura”, il grano tritato risultato di scarto della trebbiatura sull’aia, così chiamato perché destinato come becchime al pollame. Quando iniziavano a volare aprivo la gabbietta ed assistevo ai loro goffi tentativi di librarsi nella stanza. Allorché le loro ali si facevano forti aprivo la finestra e dopo aver cosparso il davanzale con il loro becchime, li lasciavo liberi. Ad apprezzare la libertà impiegavano qualche giorno, ma poi spiccavano il volo e per qualche tempo tornavano a cibarsi sul davanzale.
Ma Cecco e la Cecca furono uccellini diversi. Il babbo li trovò in coppia una mattina di primavera. Li allevai insieme e quando cominciarono a impiumarsi riconobbi il maschio nelle colorate piume e la femmina nel piumaggio grigio. Ebbero nome Cecco e Cecca. Ed è qui che entra in scena Guidacci Cino l’arrotino. Un personaggio veramente caratteristico. Ho un ricordo vivissimo di quest’uomo, sempre chino sulla sua mola, intento ad affilare ogni tipo di ferro tagliente. Avevo per Cino una grande simpatia. Piccolo con occhi vivaci e intelligenti, ma un velo di tristezza per il dolore, mai placato, dovuto perdita della figlia giovinetta. Apparentemente cupo, subito la sua bocca si scioglieva in sorriso quando mi presentavo a lui con forbici e coltelli da affilare: “Gianassina – così mi chiamava – mi ricordi la mia bambina”. Era un vero maestro nell’arte dell’affilatura. Era l’arrotino di fiducia del Prof. Giuseppe Cieri, famoso chirurgo e direttore all’ospedale di Luco Mugello, fino agli anni ‘70. All’epoca non c’erano i bisturi monouso e Cino arrotava tutti i ferri chirurgici che il professore portava e ritirava di persona alla sua bottega.

Il lunedì i più bravi barbieri di Firenze venivano in trasferta a Scarperia per affilare i loro rasoi. Arrivavano al mattino, approfittavano di una bella scorpacciata di tortelli all’Osteria da Nino Pasinetti e nel tardo pomeriggio rientravano, dopo aver ritirato i ferri del mestiere. Un imprecisato lunedì pomeriggio d’inverno era già buio quando nella bottega del nostro arrotino, che stava ultimando il lavoro per i barbieri fiorentini, si fulminò l’unica lampadina. Cino arrotò, a perfetta regola d’arte, gli ultimi 5 rasoi al buio e così diventò “vera leggenda” per Scarperia dove ha avuto la sua bottega in Via S. Martino, fino al 1980. Comunque la sua arte continua a sopravvivere con i pronipoti Guidacci Roberto ed Andrea ed è stata trasferita da Scarperia a Borgo San Lorenzo.

Cino oltre ad essere un arrotino di grande prestigio, era appassionato di caccia al capanno. All’epoca la caccia non era considerata con l’odierna sensibilità, ma trattata come una attività utile all’agricoltura, capace di limitare il numero dei volatili, che se troppo numerosi danneggiavano le coltivazioni. Nel retrobottega di Cino si udiva il canto di uccellini da richiamo. Ne aveva di tutte specie: tordi, merli, cardellini passerotti e fringuelli. Li curava con grande amore e parlava con loro come fossero umani. Spesso, per far loro prendere aria e luce, appendeva le gabbiette lungo la via. Adesso penso che se fosse passato Leonardo da Vinci li avrebbe comprati tutti per dar loro la libertà, ma all’epoca a me sembravano uccellini molto felici! Cino aveva fatto il suo capanno in un campo del nostro podere del Pian dei Poggioli. Lo vedevo passare con il treno di gabbie sulla spalla e al ritorno, con il carniere pieno, sostava nella nostra casa colonica per un bicchiere di vino rosso. Fu proprio in una di quelle soste che vide Cecco e la Cecca. Rimase affascinato dal maschio che aveva veramente uno splendido piumaggio variopinto e, questa la sua sfortuna, un canto forte e modulato.
Cino mi disse: “ Gianassina, fai tu il prezzo di questo passero stupendo che te lo compro, stai sicura che avrà un trattamento regale”. Io risposi che mai avrei venduto questi uccellini che avevo allevato per la libertà. Cino, che era un uomo molto generoso, mi offrì 5.000 lire. Nella metà degli anni ’60 quella era una cifra allettante e pensai che avrei finalmente potuto comprare un costume di carnevale che avevo sempre desiderato, ma mai avuto il coraggio di chiedere. Così Cino ebbe Cecco e io un costume da mandarino cinese. La Cecca rimase con me ancora qualche settimana e poi prese il volo. Fu l’unica che l’anno successivo tornò a farmi visita, forse per sfamarsi con il becchime che non facevo mai mancare sul davanzale, o forse per cercare il suo amico Cecco. Sono sempre rimasta con il dubbio ed oggi con il rimorso di aver condannato Cecco ad una vita di cattività.
Ma poi mi ripeto che non si può giudicare il passato con gli occhi del presente!

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