di Salvina Pizzuoli    

Come per gli umani, anche gli oggetti hanno un loro “destino” se così vogliamo chiamare le vicissitudini che spesso accompagnano e contraddistinguono il percorso di un’opera dell’ingegno e della creatività. Nel caso specifico ci riferiamo ad un crocifisso la cui storia ha dell’imprevedibile e pare più vicina al romanzo che alla vita reale.

È un crocifisso a grandezza naturale, 168 cm in altezza e160 in larghezza, in legno di pero e gesso e, come spesso capita per le vicende umane, ha avuto un’esistenza travagliata e piena di imprevisti, nella buona e nella cattiva sorte, fino a giungere a noi con il nome del suo fattore non sempre certo o accertabile, proprio perché non esiste una documentazione precisa che possa confermare o documentare la committenza, la provenienza e soprattutto come e perché abbia trovato una sua collocazione nel convento di Bosco ai Frati.

Tutto quanto segue si deve alle memorie lasciate dai frati del convento e all’acume e alle deduzioni degli studiosi e degli specialisti.

E partiamo da quanto è dato per certo.

Nei primi anni ’50 era stato riposto nella cripta della famiglia Gerini che aveva acquistato il complesso conventuale affidandolo ai frati francescani, cripta scavata sotto la chiesa del convento. Fu lì che Alessandro Parronchi e Piero Bigongiari, il primo storico dell’arte e il secondo poeta, pellegrini al convento, ne rimasero colpiti mentre le intuizioni dello storico e critico dell’arte lo fecero affidare ai restauratori della Soprintendenza delle Belle Arti di Firenze. Durante i lavori di studio e restauro emersero le brutture compiute in precedenti interventi.

Forse il restauro realizzato dal “dipintore” di Scarperia cui era stato affidato dopo la caduta a causa del terremoto del 13 giugno del 1542? Della caduta e rottura del crocifisso racconta Fra Giuliano Ughi della Cavallina, autore di molte cronache legate alla storia del convento: dal suo racconto si ricava che in quel tempo il crocifisso era collocato all’altare maggiore e che in seguito al terremoto fosse rovinato su l’armadio dei libri discosto dal coro più di otto braccia*.

La caduta legata alla violenza della scossa determinò la rottura delle gambe, del corpo e di un braccio e il “dipintore” nel suo intervento aveva realizzato un lavoraccio riempendo di stoppa e stucco le parti del crocifisso rovinate dalla caduta.

Ripristinato e restaurato dopo il ritrovamento nei primi anni del ’50, riprese il suo posto nel convento: erano trascorsi ben 19 anni dopo l’inizio dello studio e dei lavori per restituirlo alla fattura originale.

È una vera emozione entrare nella sala che oggi lo accoglie insieme ad altre opere pregevoli.

Colpisce per essere un Cristo nudo, con il rosso delle piaghe determinate dalle frustate, per il volto a cui la sofferenza dà espressione: gli occhi semichiusi, lo sporgere in avanti del torso che si chiude sotto il peso fino a soffocarlo, il viso scavato e segnato, i capelli incollati al cranio, la testa reclinata.

Un impatto forte sul visitatore: sul volto del Cristo, il volto di un semplice uomo, il dolore e nella sua nudità tutta l’impotenza della sofferenza umana. Un’opera magistrale legata sicuramente all’abilità e all’ estro di un grande artista.

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*da Gianni Frilli “La chiesa, il convento e il museo di san Bonaventura al Bosco ai Frati” 2022 Edizioni Noferini.it