di Salvina Pizzuoli

Vista così, tra le brume di un giorno d’inverno, nella piana dove la mole mutila si erge comunque possente e imperiosa nelle sue strutture elevate e massicce, è ancora più misteriosa e affascinante come la vita del santo a cui fu dedicata.

L’abbazia di san Galgano è il primo esempio di monastero dell’ordine cistercense in Toscana. I lavori furono iniziati intorno al 1220, la chiesa fu poi consacrata nel 1288.
La visita ha inizio da uno dei locali ancora intatti, almeno nelle strutture: l’ampio scriptorium, dedicato alla copiatura dei volumi, per poi proseguire passando attraverso la sala capitolare dove i monaci si riunivano per la lettura e per parlamentare. Entrambe le aule hanno le volte a crociera nella semplicità e rigore tipico dell’ordine cistercense. Nella sala capitolare, con due contrafforti a sostegno delle volte, colpisce l’elegante fattura delle due grandi bifore mentre nello scriptorium il visitatore viene attratto dai quattro contrafforti che sostengono le volte e dai disegni che ne decorano le cordonature risultato di un restauro recente ma basato su frammenti originali.

Dalle finestre della sala capitolare vediamo il chiostro o meglio la ricostruzione che ne venne realizzata nel primo trentennio del XX secolo utilizzando materiale originale.


Colpisce il degrado al quale un’opera sopraffina come l’abbazia sia stata lasciata nel tempo, ma la storia ci racconta che all’inizio del XVI secolo il monastero fosse affidato a “commenda” di cardinali che non vi risiedevano ma che percepivano le rendite provenienti dalle attività economiche svolte dall’abbazia nei terreni e negli opifici di proprietà. Non va dimenticato infatti che le abbazie, come i castelli feudali, occorrevano di tutte quelle manifatture necessarie alla vita di una grande comunità: mulini, gualchiere, fonderie per i metalli, in questo caso provenienti dalle miniere di Montieri e coniare moneta, cartiere, grance, fornaci etc. oltre ovviamente la coltivazione dei grani e l’allevamento del bestiame.

Il percorso della visita ci porta ora all’interno della grande costruzione scoperchiata: in travertino e mattoni, a croce latina, misura circa 70 metri in lunghezza e 21 in larghezza, otto pilastri cruciformi per parte con capitelli e archi a sesto acuto con doppio archivolto la dividono in tre navate. L’abside quadrata è ingentilita da sei monofore, tre in basso più lunghe e tre in alto più piccole, a ogiva mentre un grande occhio vuoto occupa oggi il posto del rosone che le sovrastava, a forma di fiore a 12 petali. Circa cento capitelli completano le colonne, tutti con motivi floreali di diverso stile e fattura, uno solo, quello del primo pilastro a sinistra raffigura un volto umano, singolare presenza in quanto la scelta decorativa cistercense evitava raffigurazioni antropomorfe o animali. Presumibilmente o almeno così si tramanda il volto raffigurerebbe quello del magister lapidum quasi abbia voluto lasciare così la propria firma: Ugolino di Maffeo.



Nel transetto di destra possiamo invece ancora ammirarne il rosone dove tre cerchi si restringono via via dentro quello maggiore, presumibilmente con un gioco di pieni e vuoti non dissimile da quello andato perduto.
Il lento declino iniziato nel XV secolo si compie nel XVI e culmina nel crollo, ad opera del campanile, della copertura: nel 1776 mentre si diceva messa le volte a crociera precipitarono nella navata.

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