di Salvina Pizzuoli

Tre gli ingredienti fondamentali: la presenza di acque, la materia prima, una buona viabilità, ingredienti ai quali Prato aggiungeva la terra follona, un’argilla estratta nelle cave del Monteferrato con la particolare proprietà di infeltrire le lane e follare i panni rendendoli impermeabili compattandoli. Da questi ingredienti già nel Medioevo, a partire dal XII secolo, a Prato venne avviata una fiorente attività laniera i cui membri costituirono una delle Corporazioni più influenti della città.
Canalizzare le acque del Bisenzio e regolamentarne il flusso e le piene era un fattore essenziale al punto che già nel 1100 fu costruito uno sbarramento a nord, in località Santa Lucia, a cavallo di un’ansa del fiume da cui il nome di Cavalciotto. L’opera ingegneristica si completava con tre “calloni”, serrande in rovere che regolavano il passaggio dell’acqua nel canale principale, il Gorone che, nei pressi del centro cittadino si divideva in cinque gore che confluivano poi nell’Ombrone: sui canali erano sistemati e i mulini e le gualchiere. Se questa vocazione laniera era legata e dovuta ad una situazione “geografica”, la promozione di quella tessile si lega indissolubilmente al nome di Marco Datini che, con la sua intraprendenza imprenditoriale, riuscì a controllare tutto il ciclo produttivo: dall’approvvigionamento della materia prima, alla sua trasformazione in panno e la sua commercializzazione in molti paesi europei e nell’area mediterranea: siamo nel XV secolo e Prato, grazie alle sue ormai conclamate perizie nella lavorazione, colorazione delle lane nonché la fabbricazione di tessuti, raggiunge uno dei periodi di massimo splendore ancora oggi testimoniato dalle pregevoli opere dell’architettura e dell’arte figurativa in genere di cui si adorna, commissionate ai talenti dell’epoca: Filippo Lippi, Giuliano da Sangallo, Mino da Fiesole, solo per citare i più in vista e conosciuti.

Ma si sa che le grandezze umane sono spesso soggette a fasi alterne e fu con il terribile sacco di Prato del 1512 che iniziò il lento declino della città inserito in quello più ampio della crisi economica e politica dell’Italia. Ma le vocazioni si possono rallentare, non spegnare, così dopo il proclama di Cosimo I Medici, che proibiva a Prato la fabbricazione di stoffe pregiate per proteggere i pannilani fiorentini, i Pratesi iniziarono a specializzarsi nella produzione di quelli meno pregiati, ma di qualità, ottenendo ancora una volta un’affermazione in campo produttivo ai tempi del Granducato di Toscana: siamo nel XVIII secolo.
E la storia della “stoffa di Prato”, che ha reso proverbiale la fama e del prodotto e della città, si fregia del nome di un altro personaggio, Giovan Battista Mazzoni, un pioniere della moderna industria tessile pratese: siamo nel 1824 quando ad opera di Mazzoni si sviluppa l’industria della tessitura della lana specializzata nella lana rigenerata, dagli stracci o cenci, da cui cenciaioli, termine con cui si chiamavano gli operai, importata da diversi paesi attraverso il porto di Livorno, che rappresenterà una vera rivoluzione nell’industria tessile del cardato. È al Mazzoni che si deve la costruzione, su imitazione di quella francese che il nostro aveva, come sapiente e novella spia industriale, saputo imitare e quindi introdurre nelle manifatture pratesi: la prima macchina per cardare e filare.

I cenci venivano quindi selezionati e trasformati in tessuti cardati miscelando la lana rigenerata con lana vergine ottenendo prodotti a prezzi competitivi e di qualità.
Ma la storia ci insegna che le conseguenze delle decisioni umane sono spesso imprevedibili anche se non indirizzate a quello scopo, e fu così che nell’Italia di Crispi, la svolta protezionistica nell’industria laniera, determinando il rialzo dei prezzi delle lane pettinate, favorì i prodotti di lana rigenerata, come spiega lo storico Franco Cardini nella “Breve storia di Prato” e aggiunge che nel campo della lana pettinata la grande novità fu “in qualche modo un risultato della Triplice alleanza: il non incontrastato ma dirompente approdo in città, nell’89, della società industriale e commerciale austro-tedesca Kössler, Mayer e Klinger, con l’impianto a nord della città della grande fabbrica che da allora e in seguito nota, come “Il Fabbricone […] e dava lavoro ad un migliaio di operai”. In queste brevi ma intense pagine Franco Cardini offre uno spaccato della società pratese del tempo: da una parte il “vorticoso progresso” vede l’arrivo a Prato nel 1901 del telefono e nel 1905 della luce elettrica nonché dei primi cinematografi, dall’altra la vita grama di masse di operai con orari di lavoro pesantissimi e con un alto tasso di mortalità; “nella città de’ cenci la polvere era sovrana” e gli stessi cenci, importati da ogni dove, erano portatori di malattie contagiose perché provenivano anche da zone infette, tanto da dare un nome alla diffusione di contagi di quella malattia detta appunto dei cenciaioli.

E oggi, a lontana memoria di quella grande fabbrica tessile, un lanificio a ciclo completo, il Fabbricone pur mutando la propria funzione è diventato, dal 1974 ad opera di Luca Ronconi, Teatro sperimentale di cui spesso molti ignorano le origini e la storia.
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