Calendimaggio
impazza per le strade. […]
E in queste circostanze

la paglia di Firenze
è proprio quello
che ci vuol. […]

Museo della paglia e dell’intreccio Signa.

Il cappello di paglia di Firenze
è proprio adatto per tutte le evenienze.
Per parlarsi, per amarsi,
per baciarsi impunemente
sotto il naso della gente.

Così cantava Odoardo Spadaro. Ma il cappello di paglia era già stato protagonista in altre opere: il maestro Nino Rota aveva messo in musica e rappresentato un libretto, proprio e della madre scritto nel 1945; “Un cappello di paglia di Firenze” si intitolava una commedia di Eugene Labiche del 1851con il titolo originale di “Un chapeau de paille d’Italie” da cui sarebbe stato tratto un film, muto, nel 1928 e diretto da René Clair.

Una breve cronistoria che racconta quanto il cappello di paglia fosse di moda e conosciuto e usato e diffuso non solo in Toscana.

Quella del cappello di paglia è una storia molto antica.

Museo della paglia e dell’intreccio Signa

Sembra infatti che l’uso d’intrecciare trecce di paglia per farne cappelli risalisse al XIV secolo. Divenne però una vera manifattura molto tempo dopo ad opera di un bolognese, Domenico Michelacci, trasferitosi a Signa nel 1714. Fu dal 1718 che “quell’arte e quel commercio presero in Toscana sviluppo grandioso, assumendo il carattere di una vera e propria specialità della regione nostra, specialità tuttora apprezzatissima”. Così scriveva Gustavo Pierotti*, nel suo studio dedicato alla paglia in Toscana, nel 1927. Si tramanda, a proposito dell’eccellente qualità della produzione toscana, che gli Inglesi, invidiosi (?), avessero importato quantità enormi di terra toscana perché solo sui dolci declivi delle colline veniva prodotta la paglia migliore.

Se alle origini s’intrecciava la paglia residua della mietitura, il Michelacci invece cercò di realizzare una materia prima pregiata al fine di ottenere steli sottili, uniformi e candidi, i culmi, con la coltura del grano “marzuolo” seminato in modo fittissimo e raccolto in anticipo sui tempi di maturazione, per ottenerne una paglia più lunga e morbida ma resistente: così Signa divenne centro promotore insieme alle località vicine di una produzione di paglia per cappelli poi esportati in tutto il mondo da Livorno, dove all’inizio i navicellari li trasportavano e vendevano ai turisti, specialmente inglesi, tanto che spesso il cappello era detto anche “di Livorno” oltre che di Firenze che ne diventò emporio internazionale; nei primi decenni dell’Ottocento infatti il commercio si aprì anche oltre oceano verso le Americhe.

Se un prodotto va le imitazioni non mancheranno, ma quello toscano non conosce concorrenza e per la qualità della paglia e per la confezione accurata, ma per il prezzo sì. Vennero così studiati vari sistemi per abbassarlo, con interventi come quello proposto da Carlotta Fancelli di una treccia ottenuta con soli 5 fili: le trecce erano invece costituite, a seconda della varietà, da 13, 11 e di 7 fili oppure abbassando le paghe, cosa che determinò una sollevazione delle industriose trecciaiole che incrociarono le braccia e chiesero a gran voce i loro diritti capitanate dalla Baldissera, la capeggiatrice della rivolta: era il maggio del 1896.

“Negli anni 1990-96 la crisi si aggravò moltissimo anche a causa della fabbricazione ingente di cappelli di feltro, leggerissimi, a mitissimo prezzo, che furono preferiti ai cappelli di paglia […] Il cappello fiorentino reggeva sempre con maggiori difficoltà; resisteva per il suo mite prezzo che faceva richiedere le treccie ed i cappelli, specie di inferiore qualità” ( Gustavo Pierotti La paglia in Toscana).

Una lavorazione quella della paglia che conobbe cifre vertiginose e di addetti e di coltivazione e di esportazione: alla fine dell’Ottocento si contavano nel settore circa 80.000 addetti, circa 580 ettari a seminativo, sia “marzuolo” sia “semone”, la cui raccolta, tra maggio e giugno, era curata prevalentemente da donne che ne formavano vari mazzetti detti “manate” proprio perché ne contenevano quanta potesse stringersi in una mano; nonché l’esportazione di circa 4 milioni di cappelli. Le donne erano inoltre addette anche all’attività dell’intreccio e della cucitura, ed erano dette appunto trecciaiole e cucitrici.

Una lavorazione quasi completamente manuale, ad esclusione delle macchine assortitrici, per calibrare gli steli di paglia, e delle presse. Non si poteva ancora parlare di produzione di fabbrica in quanto l’attività era soprattutto domiciliare.

Le trecce erano poi modellate e rifinite in un primo tempo a mano e poi con la macchina da cucire, introdotta successivamente insieme alla pressa idraulica. Il successo dei cappelli toscani era legato sicuramente alla materia prima ma anche all’accurata confezione e alla creatività delle fogge. Al livornese Giuseppe Carbonai si lega il nome dei cappelli a falda larga, i fioretti, che aveva saputo perfezionare e, nel 1835, si imposero ad esempio le cappotte, cappelli ad imbuto, una specie di alta guglia tagliata a tronco di cono.

Il settore comunque visse vari periodi di crisi, da cui si riprese sempre, e non solo ad opera della concorrenza interna, altre regioni in Italia infatti avevano avviato la medesima attività, ma anche europea, di Francia e Inghilterra, e asiatica, soprattutto ad opera dei Cinesi.

L’attività che aveva rappresentato un settore trainante dell’economia toscana sopravvisse fino al dopoguerra, travasandosi poi in settori collaterali. Ma, rinata in verità, in tempi successivi, ha saputo fondere le antiche operazioni, affidate alle abili mani della cucitrici e delle trecciaiole, con i nuovi prodotti e materie prime, ottenuti attraverso macchinari che sanno rendere al meglio il lavoro precedentemente prodotto a mano. Oggi nel territorio sono attive molte aziende riunite nel Consorzio del cappello di paglia di Firenze costituito nel 1986 e ancora oggi a Signa e zone limitrofe continua l’antica tradizione.

*Gustavo Pierotti La paglia in Toscana Edizioni dell’Ente per le Attività toscane, Firenze 1927

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