di Salvina Pizzuoli

La vite e l’olivo sono le piante che, dalle colline dell’interno fino al mare, dominano il paesaggio toscano.
Tra novembre e dicembre ricorre il rito della raccolta dei frutti, un lavoro duro ma da sempre vissuto come una grande e bella festa che riunisce persone diverse in un lavoro all’aria aperta tra chiacchiere e mense semplici dove consumare in allegra brigata pasti veloci nelle pause di riposo: tra “paracadute”, i teli per la raccolta, cassette per il deposito dei frutti, “rastrelli” per pettinare i rami e trascinare a terra le olive.
Ancora oggi in Toscana questo è il metodo prevalente, quello fatto a mano, la cosiddetta brucatura, arrampicandosi sui tronchi per raggiungere i rami più alti, evitando i rastrelli elettrici, unico marchingegno moderno, ma che rastrella troppo i rami. Ma non finisce qui, dopo la raccolta l’oro verde nasce nei frantoi che con appositi macchinari lavano le olive sfrondandole dai residui delle foglie, quindi frantumandole e infine spremendole per l’estrazione.
Chi avesse mai visitato un frantoio non può non restare inebriato dall’odore intenso e penetrante, notare il colore smeraldino, assaporare il sapore frizzante, come la fettunta sa raccontare al palato, derivato dall’ultima fase, quella della spremitura fatta a freddo, come si preferisce in Toscana per mantenere al meglio le proprietà organolettiche del prodotto.
Ma da dove è arrivata questa pianta che è espressione di un paesaggio limitato prevalentemente all’area Mediterranea?

Una storia affascinante e decisamente millenaria ce la racconta con i suoi avvenimenti a volte sensazionali, le sue curiosità e le sue leggende frutto proprio di un cammino che si perde nel tempo. E iniziamo dall’arrivo in Toscana di questa pianta derivata dall’olivastro: è nel Mediterraneo orientale che gli studiosi ne hanno trovato la presenza a partire dal IV millennio a.C. e che la prima documentazione di olivocultura colloca in Palestina a nord del Mar Morto, datata 3700/ 3500 anni a.C.; ma furono i Greci a diffondere l’olio su tutte le coste del Mediterraneo. Prova ne è il fatto che nel vocabolario etrusco e latino le parole riferite e all’albero e al frutto erano tutte di origine greca il che evidenzia quanto la pianta fosse importante, come la stessa mitologia reca tracce evidenti. Dalle colonie greche dell’Italia meridionale raggiunse e si diffuse intorno al IV secolo a. C. nel Lazio e nell’Etruria. Si deve all’ingegno romano la costruzione degli strumenti estrattivi, come il termine mola olearia ricorda nell’etimo, una sorta di mulino a rulli.
Ma, contrariamente a quanto si possa pensare, l’olio non veniva in una prima fase utilizzato per uso alimentare, era il frutto ad essere in un primo momento consumato.
Come in Grecia era in prevalenza utilizzato per l’illuminazione, per un abbellimento del corpo o per la concia delle pelli. Sono i corredi funebri etruschi a testimoniare nel III secolo la presenza dell’olio e del vino, conservati in appositi contenitori, ma solo con i Romani avverrà il passaggio anche alla sfera alimentare come dimostrano le ricette del De re coquinaria di Apicio che lo indicava per le zuppe di farro e di miglio specificando anche quello “migliore” per qualità: quello proveniente dalla Dalmazia.
Curiosità curiosa tra gli usi non alimentari dell’olio, è quanto scritto da Plinio sulla confezione del sapo ovvero del sapone, attribuendone ai bellicosi Galli l’invenzione evidenziando che anche il rude guerriero prediligeva un corpo efficace, pulito e profumato.

E l’olio nel suo cammino nell’antichità diventa sempre più un bene speciale, curato e studiato al punto da richiedere la figura di un professionista, di un fattore specializzato: l’olearius: nasce così lo studio accurato della pianta, delle diverse specie, una quindicina quelle indicate da Plinio nella sua Naturalis Historia, e delle sue proprietà medicamentose: le foglie cicatrizzanti, depurative e astringenti; ma lo studio della pianta e dei suoi frutti giunse fino a consapevolezze oggi accreditate: le olive andavano raccolte appena mature senza farle stazionare sul terreno e subito frante e, come lo stesso Plinio affermava, solo l’olio giovane possedeva intatte tutte le sue virtù.
L’utilizzo alimentare e la sua diffusione si lega al Cristianesimo con il valore sacro attribuito all’olivo come pianta e all’olio medesimo: la parola Christós infatti reca nell’etimo il significato di unto, legato anche al potere terapeutico dell’olio.
Con la caduta dell’Impero romano e le successive incursioni barbariche, le guerre che devastarono il nostro territorio, la sopravvivenza di questa pianta e della sua coltura si deve ad alcuni ordini religiosi, i Cistercensi e i Benedettini che, in base alla loro regola, coltivarono le terre collinari riportando i contadini al lavoro dei campi, come accadde a Vallombrosa, a Camaldoli, intorno alle abbazie come quelle di San Salvatore nell’Amiata, o di Santa Fiora, solo per fare alcuni esempi, terre strappate al bosco o alle paludi o con terrazzamenti lungo i clivi scoscesi, contribuendo alla creazione di quel paesaggio che ancora oggi incanta il visitatore e chi vi risiede.
Alla fine del Medioevo si verificò pertanto un incremento della coltivazione dell’olivo, pianta protetta da precise regole e potenziata in Toscana obbligando i mezzadri a inserire nuove piante nel terreno da loro lavorato e così l’olio andò lentamente a sostituire nel condimento il lardo e lo strutto e non solo, estendendo l’uso dell’olio meno sopraffino alla lavorazione della lana, nella fase della cardatura, e in quella del sapone come avveniva a Venezia, a Genova e a Marsiglia, tutte e tre città portuali dove arrivavano i carichi di olio per questa specifica produzione.




E oggi?
Oggi è stata la dieta mediterranea la chiave per estendere l’uso alimentare dell’olio e ci pare giusto quindi raccontare in breve la storia di questa pianta, dei suoi frutti e dei suoi derivati, godimento per gli occhi, per il gusto e per una sana alimentazione, quasi un elisir di lunga vita.