Il “rialto”: una parola in disuso nel vocabolario toscano

di Luisa Gianassi

Questa sera Gabriele rientra a casa dopo una settimana di trasferta per lavoro a Milano e voglio fargli qualcosa di buono da mangiare per festeggiarlo. Si voglio fargli un po’ di rialto.

Rialto. Questa parola è riemersa nella mia mente all’improvviso e ha aperto uno scrigno di ricordi, chiuso da decenni. Mi sono ritrovata bambina, nella grande cucina della casa colonica del Pian dei Poggioli a Scarperia. La zia Giulia, alla quale chiedo perché stia facendo i tortelli di patata senza che sia festa, mi risponde che vuole fare il rialto per festeggiare mio cugino Eugenio che torna in licenza militare.

Anche oggi il vocabolario spiega così la parola rialto: “termine toscano per significare l’aggiunta che si fa al pasto ordinario per festeggiare l’arrivo di un ospite o una particolare ricorrenza”. Risulta probabilmente nata dall’incrocio di “rialzare” con “alto”.

Sento il profumo del soffritto saporito e vedo la zia Giulia che lo mescola alle patate già schiacciate. Quanto amavo quella piccola donna claudicante! In realtà non era mia zia, ma una cugina del babbo che nel 1920, a soli 5 anni, aveva contratto la poliomielite. Non essendosi mai sposata era rimasta in famiglia e cucinava ogni giorno per tutti. Eravamo 10 in famiglia. Oltre la zia Giulia, la zia Beppa (zitella), lo zio Tonio (zibo), io, mia madre, mio padre, il fratello del babbo con la moglie e due figli. C’era veramente posto per tutti in quella grande famiglia. La zia Beppa, sorella del babbo, aveva avuto una grande delusione amorosa, ma era comunque rimasta fedele al ricordo di quell’amore e non si era mai sposata. Al contrario della zia Giulia, che era dolce e accogliente, era un po’ acida e brontolona, ma infinitamente buona. Mi raccontava delle novelle bellissime, mentre con le sue mani contorte dal duro lavoro nei campi, toglieva i semi dalle zucche per venderli e guadagnare qualche lira per comprarsi le calze. Già… in campagna si lavorava molto, non mancava il mangiare, ma di soldi ne giravano pochi e le donne se volevano togliersi qualche vizio, dovevano fare qualche lavoretto dopo cena. La zia Giulia non sapeva raccontare le novelle, ma ascoltava i miei sogni di bambina e mi ricamava il corredo. Un corredo che non ho mai usato ma che conservo con cura in un vecchio baule.

Lo zio Tonio nel ritratto di Sara Gianassi

Lo zio Tonio era nato sempliciotto, non aveva malizia come diceva la zia Beppa. Lo avevano mandato a scuola per 8 anni, ma era riuscito solo ad avere la licenza di 2^ elementare. Era comunque un gran lavoratore. Al mattino si alzava presto e dopo aver pulito tutta la stalla, strigliava ben bene le 4 vacche chianine, che così erano sempre pulite e splendenti nel loro candore. La sera lo zio Tonio per avere qualche lira per le sigarette NAZIONALI, ne fumava 2 al giorno, confezionava le granate di saggina, che poi vendeva ad un negoziante. Certo non era semplice perché la saggina andava seminata, poi tagliata, messa a seccare, battuta ed infine con quella scelta si potevano confezione le granate e le spazzoline.

Sì caro Gabriele stasera ti farò un bel rialto, tortelli di patata con un soffritto profumato, ti farò conoscere la zia Giulia, la zia Beppa e lo zio Tonio che ti avrebbero amato come hanno amato me e che sarebbero orgogliosi dell’uomo fantastico che sei diventato.

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