Il rosmarino blu toscano

E sì, pare strano, lo usiamo molto, ci pare di conoscerlo, ma in verità la nostra è una conoscenza molto superficiale.

E cominciamo dall’etimo: secondo alcuni deriva dal latino rus maris ovvero rugiada di mare, secondo altri da rhus maris, arbusto di mare, ma anche, dal greco myrinos ossia aromatico, riferito al suo profumo. L’antica leggenda, che non poteva mancare visti gli usi antichissimi della pianta, racconta che i suoi fiori fossero bianchi ma Maria, durante la fuga in Egitto, vi appoggiò il suo manto colorandoli di azzurro. E oggi non dimentichiamo che il rosmarino toscano , conosciuto con il nome di ‘Tuscan Blue’, azzurro toscano, i cui fiori vanno di un blu intenso al viola, è una specie più resistente alle invernate.

Appartenente alla famiglia delle Labiate, il suo nome scientifico è Rosmarinus officinalis L. ma ha tanti nomi vernacolari tresmarino, tremarino, tremarin, tramarino, tramerino, omarin, rosmarin, smarin, ramelino, tamarino, ramerino. Di questi quello più comune e diffuso in Toscana è “ramerino”

Ma perché mi pare giusto parlare di uno sconosciuto se fa parte del nostro habitat costiero e non solo, anche delle nostre piante da balcone e da giardino più comuni e se lo usiamo abitualmente per condire arrosti e patate al forno per non dimenticare confezioni più famose, come il Pan di ramerino e il Castagnaccio dove le lanceolate foglie il nostro arbusto non possono mancare insieme al suo inconfondibile aroma?

Con meraviglia ho appreso i diversi usi elencati nel bel libro di Rita Elisabetta Uncini Manganelli, Fabiano Camangi, Paolo Emilio Tomei (Dipartimento di Agronomia e Gestione dell’Agroecosistema Università degli Studi di Pisa) “L’uso delle erbe nella tradizione rurale della Toscana”.

Se molto apprezzato è l’olio d’oliva in cui si lasciano a macerare rametti di rosmarino, non mancano usi in Toscana meno diffusi – si legge – o utilizzi meno estesi su vari territori della nostra regione:

“In Alta Val di Lima (Pistoia) è usanza piuttosto diffusa quella di bere il macerato di foglie in vino bianco come tonico e rinforzante. Nel Grossetano, il decotto dei rametti fioriti è adoperato per fare pediluvi in caso di caviglie e piedi gonfi ed affaticati. il decotto o il macerato alcolico preparato dalle foglie è adoperato per frizionare il cuoio capelluto, come tricostimolante. In Lunigiana (Massa) e all’isola d’Elba (Livorno), lo stesso decotto si usa per detergere la pelle e i capelli, mentre in alcune località della Garfagnana, come a Vagli, a Eglio e a Capanne è aggiunto nell’acqua del bagno a scopo rilassante. In Versilia, ancora il decotto delle foglie, insieme al mallo delle noci (Juglans regia L.) e alle radici di ortica (Urtica dioica L.) è usato per scurire i capelli”

e, quanto sopra riportato è giusto per sceglierne alcuni tra i molti presentati.

Conoscete l’acqua di San Giovanni?

C’è a Firenze un’antica tradizione legata alla notte del solstizio d’estate, la notte tra il 23 e il 24 giugno giorno in cui la città festeggia il suo patrono, San Giovanni. La notte del solstizio è considerata una notte magica che segna il passaggio alla bella stagione che, negli antichi riti pagani doveva essere propiziata per raccolti abbondanti evitando fenomeni meteorologici che avrebbero potuto danneggiarli. In quella notte si tramanda che i fiori siano attraversati da una forza benefica e forte e pertanto capace di conciliare le forze della natura. Così, si raccolgono vari tipi di fiori ed erbe, iperico, lavanda, ruta, rosmarino e salvia, sistemati in una bacinella con dell’acqua e lasciati tutta la notte fuori a fare il pieno della rugiada degli dei. L’indomani il lavaggio di mani e viso sarà portatore di salute, amore e fortuna.

Ma non solo l’acqua di San Giovanni, ma anche quella detta della regina d’Ungheria: siamo nel XIV secolo, tramanda la leggenda, in cui la nobile dama decantò il rimedio fornitole da un alchimista che aveva distillato rosmarino e lavanda

La ricetta originale per la preparazione di questa lozione inestimabile è scritta dalla stessa Elisabetta: Io, Elisabetta, regina dell’Ungheria, essendo molto inferma e colpita dalla gotta durante il settantaduesimo anno di età, ho usato per un anno questa ricetta

Acqua distillata quattro volte, tre parti, le parti superiori e fiori di rosmarino, due parti. Unire in un vaso, lasciar bollire a fuoco delicato per cinquanta ore e poi distillarlo in un alambicco. Prendere un sorso del preparato alla mattina ogni settimana, nei cibi e nelle bevande, ed ogni mattina lavare con esso la faccia ed le membra malate. Questo rimedio rinnova le forze, solleva lo spirito, dà nuova lena, è eccellente per lo stomaco e per il petto.

A cui riassumendo aggiungiamo: rende la pelle del viso sana e la ringiovanisce, pare infatti che l’uso del distillato avesse reso Elisabetta piacente al punto da essere richiesta in sposa, come lei stessa ebbe a raccontare.

Il nostro rosmarino non finisce di stupirci con le sue spiccate proprietà e la realizzazione degli elisir che lo contengono.

E per concludere in fragranza ecco una ricetta di Paolo Petroni* della

MAROCCA O FOCACCIA SERAVEZZINA 6 PERSONE   farina bianca (meglio se integrale): g 250   farina gialla di mais: g 150   1 bustina di lievito per focacce olive nere snocciolate: g 100 lardo: g 50 rosmarino 1 spicchio d’aglio olio d’oliva sale Mescolate le due farine, un bel pizzico di sale, il lievito e girate bene. Aggiungete un paio di cucchiai d’olio e un trito grossolano di lardo, rosmarino, aglio e olive snocciolate. Impastate bene il tutto versando dell’acqua in modo da ottenere un impasto tipo pane, quindi stendetelo in una teglia leggermente unta d’olio. Fate delle fossette con i polpastrelli delle dita sulla superficie dell’impasto, salate leggermente e irrorate con olio. Cuocete la focaccia in forno caldo (200°C) per circa 40 minuti. Si serve tiepida o fredda. Questo gustoso pane si chiama anche pan maroko o pane marocco di Montignoso. Inutile dire che la tradizione vuole il lievito naturale o il lievito di birra. Esiste anche una versione che prevede l’aggiunta, al posto delle olive, di mezzo etto di uvetta e due cucchiai di pinoli. […] Sembra che il temine marocco venga dalla voce dialettale “marocat” che vuol dire duro, come un tempo erano queste preparazioni.

La morocca (foto originale)

*Petroni, Paolo. Il grande libro della vera cucina toscana . Giunti.

Articoli correlati:

Le “erbe spontanee” nella nostra cucina

Piatti tipici toscani, la loro storia e le loro ricette

Dolci tipici toscani, la loro storia e le loro ricette