Nel Settecento viaggiare “per posta” significava affidarsi a un sistema organizzato di carrozze, cavalli e stazioni di sosta che, seppur rudimentale rispetto agli standard odierni, rappresentava il cuore del trasporto a lunga distanza. In Toscana, la tratta Firenze–Bologna era una delle più importanti e al tempo stesso delle più impegnative, poiché richiedeva un’attenta pianificazione e la resistenza necessaria per affrontare un percorso lungo, impervio e spesso segnato da condizioni climatiche proibitive. Il servizio postale, presente fin dal XVII secolo, si perfezionò progressivamente fino a conoscere un vero riordino sotto la dinastia asburgica, con la promulgazione della prima legge organica il 14 marzo 1746, seguita da ulteriori regolamenti nel 1762 e nel 1783, quando la gestione passò al “Dipartimento Generale delle Poste”. Durante il dominio francese venne adottata la legislazione postale d’Oltralpe e, dopo ulteriori modifiche nel 1825 e nel 1827 con la rinuncia alla Privativa Postale, si giunse nel 1859 all’unificazione normativa con le altre province del Regno, preludio alla legislazione postale italiana del 1861. Fino al 1762 il collegamento tra Firenze e Bologna passava per il Giogo, una strada dura, percorsa a cavallo e talvolta a piedi o a dorso di mulo, costellata di salite ripide e resa ancora più ostile dagli inverni gelidi e nevosi. Le soste, necessarie sia per i viaggiatori che per i cavalli, erano numerose: Uccellatoio, S. Piero a Sieve, Scarperia, Giogo, Firenzuola, Pietramala, Filigare e Pianoro rappresentavano le tappe principali. Con l’apertura della strada della Futa nel 1762 il tracciato cambiò e nacquero nuove stazioni di posta: Fontebuona, Cafaggiolo, Montecarelli, Covigliaio – situata a 1.276 metri di altitudine – e Filigare, seguita dalle fermate bolognesi di Scaricalasino, Loiano e Pianoro, fino all’arrivo a Bologna.

Secondo i “libri di viaggio” di fine Settecento, se tutto filava liscio il tragitto si copriva in circa 14 ore e 35 minuti, con tempi cronometrati tra una posta e l’altra: un’ora e mezza da Firenze a Fontebuona, un’ora e trentacinque per arrivare a Cafaggiolo, un’ora e cinquanta fino a Montecarelli, due ore fino a Covigliaio, un’ora e venticinque fino alle Filigare, un’ora e mezza fino a Loiano, due ore e cinquanta per Pianoro e infine un’ora e cinquantacinque per raggiungere Bologna. Viaggiare aveva un costo non trascurabile: per due cavalli da sedia servivano otto paoli per tratta, tre paoli per un cavallo singolo, e nei tratti più duri era necessario aggiungere altri cavalli e personale, con tariffe più alte; persino alcuni ponti, come quello sul Savena, richiedevano il pagamento di un pedaggio. Le stazioni di posta, di proprietà privata o della Camera delle Comunità, erano facilmente riconoscibili da lontano grazie alle insegne in ferro battuto raffiguranti un cavallo al galoppo o una diligenza con la scritta “Posta a cavalli”.

Le strutture variavano da semplici casolari a edifici di due piani con scuderie al piano terra, camere per i viaggiatori, cucine, sale comuni e annessi come fienili, alloggi per vetturini e officine; davanti a esse non mancava quasi mai un loggiato o una tettoia per ripararsi dal maltempo. Le condizioni igieniche erano spesso precarie: mancava l’acqua corrente, le stalle erano fredde e mal riparate e il gelo invernale uccideva i cavalli.

Pianta della Stazione di Posta delle Filigare

Per ovviare alla penuria di foraggio, molti postieri possedevano un prato vicino per produrre il fieno necessario alla stagione fredda. La prima posta lungo la via della Futa, Fontebuona, è un esempio emblematico delle difficoltà del tempo: affidata nel 1767 ai fratelli Vannini e ospitata in un edificio in pessime condizioni, aveva il tetto della stalla sfondato e nessuna fonte d’acqua nelle vicinanze; nel 1770 i postieri chiesero un prestito di 200 scudi per acquistare un terreno da pascolo e nel 1772 proposero di trasferire la posta in una località più adatta. L’ingegnere Salvetti, incaricato di un sopralluogo, suggerì di spostarla su un ripiano a 500 braccia dalla strada per Montesenario. Ripercorrere oggi questo itinerario significa immaginare un viaggio che non era solo un mezzo di trasporto ma un’esperienza totale, fatta di attese, difficoltà e incontri, in cui ogni sosta era un microcosmo di storie e necessità, e in cui il tempo e la fatica scandivano il ritmo di un’epoca in cui la strada era davvero la protagonista del viaggio.

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