di Francesca Cagianelli e Dario Matteoni

Al centro della grande mostra Serafino Macchiati: Moi et l’autre. Le frontiere dell’impressionismo tra euforia Belle Epoque e drammi della psiche, promossa e organizzata dal Comune di Collesalvetti, con il Patrocinio di Regione Toscana, Comune di Camerino; con il contributo di Fondazione Livorno; in collaborazione con Il Divisionismo – Pinacoteca Fondazione Cassa di Risparmio di Tortona / Media Sponsors; a cura di Francesca Cagianelli e Silvana Frezza Macchiati (fino al 29 febbraio, tutti i giovedì, sabato-domenica, ore 15.30-18.30; INGRESSO GRATUITO, visite guidate su prenotazione per singoli gruppi: 0586-980251/252 e 392 6025703), il cannocchiale sul romanzo di Jules Claretie illustrato da Serafino Macchiati nel 1904 e pubblicato a puntate nel 1905 sulle pagine della rivista “Je sais tout”, ma raccolto in volume nel 1908 con il titolo Obsession. Moi et l’autre.

La collaborazione con Jules Claretie sembra offrire all’artista nuovi orizzonti di ricerca: un doppio filo lega lo scrittore e l’illustratore: il testo e la figura rinviano l’uno all’altro, scambievolmente assumono il loro significato.
In una lettera di Serafino a Vittore Grubicy de Dragon, nel dicembre del 1904, si rinvengono le ragioni dell’eccezionalità dell’impegno dell’artista: “Per tal processo il lavoro si completa a vicenda amplificando la missione del disegnatore che diviene così un vero collaboratore”.
E’ proprio tale lettera a riportare l’enunciazione da parte di Macchiati del ruolo autonomo dell’invenzione grafica, in linea con la prefigurazione di un modello valido per il futuro, e nei termini di una contestazione della condizione produttiva ed esistenziale propria dell’illustratore: “(…) sarà questo lavoro – afferma – che potrà aver forza di collocarmi in un giardino meno umile di quello che finora occupo nella scala dei lavoratori del libro”.

Il romanzo di Claretie ha come soggetto lo sdoppiamento della personalità, una patologia approfondita dalla psichiatria contemporanea a seguito dello studio condotto da un medico di Bourdeaux, Eugène Azam, sul caso di una giovane paziente, Felida, che passava, dopo uno stato di torpore improvviso, a una nuova personalità.
Anche Claretie all’inizio del romanzo, nel primo incontro tra il dottor Chardin e il protagonista, il giovane artista Andrè Fortis, affetto da evidenti sintomi di sdoppiamento della personalità, menziona il caso di Felida.

Moi et l’autre appartiene quindi a quella narrazione di moda nella letteratura di fine Ottocento e primo Novecento, nell’ambito della quale Strange Case of Dr Jekyll and Mr Hyde, di Robert Louis Stevenson, rappresenta l’episodio più noto, dove ricorre il tema del “doppio”.

Nelle tavole di Moi et l’Autre l’artista affronta un territorio visivo di assoluta novità, compreso tra scienza e soprannaturale. Alcune di tali tavole, riprodotte in “Je sais tout” ma tralasciate nell’edizione del 1908, sovrappongono realtà e fantastico in una struttura immaginativa ai confini del sogno o meglio dell’allucinazione. In una di tali illustrazioni un cerchio luminoso appare ad André Fortis come sintomo del sopraggiungere dello sdoppiamento della sua personalità̀; e, ancora, il “lampo inatteso”, una sera, durante una cena, proietta la testa della moglie, Cecile, avvolta in cerchio di luce, come in una aureola, con evidenti allusioni all’iconografia de L’Apparition di Gustave Moreau.

Nel 1904 Vittorio Pica dedica sulle pagine della rivista “Emporium” un lungo articolo alla carriera di Serafino Macchiati illustratore di libri e riviste. La dettagliata disanima del critico napoletano, ampiamente ripresa dalla bibliografia recente, muoveva da un preciso assunto, vale a dire la considerazione, nel panorama internazionale della grafica, di un artista definito “evocatore della modernità, mercè il segno della penna e la macchia dell’acquerello” e capace di “fissare sulla carta la delicata sua visione della vita contemporanea, considerata negli aspetti della grazia, dell’eleganza, dell’intimità”.

Spetta a Pica l’indubbio merito di aver evidenziato come queste prime esperienze siano da riferire a un universo narrativo che, nella Parigi della fine del secolo XIX, proponeva il romanzo di “mondanità psicologica” di cui uno dei maggiori esponenti era appunto Paul Bourget. 
L’artista era, quindi, chiamato a illustrare romanzi e racconti che rappresentavano la socialità dei salotti alla moda, la vita nei quartieri e nei boulevards della metropoli, le passeggiate nei boschi e nelle campagne. Bourget aveva acquistato una certa notorietà con la pubblicazione nel 1883 degli Essais de psychologie contemporaine, cui seguiva dopo due anni il volume Nouveaux essais de psychologie contemporaine. Il successo arriva tuttavia con i romanzi, di cui il primo sarà Un crime d’amour. Nel rappresentare la mondanità del suo tempo Bourget disegna, nel caleidoscopio della pagina scritta, dandy disincantati, amanti tradite, personaggi inermi di fronte alle avversità della vita. Lo scrittore penetra acutamente nel clima della Belle Epoque diviso tra l’esteriorità della vita sociale e le ansie della nuova borghesia metropolitana.

In un articolo apparso nel 1912 in “Noi e il Mondo”, supplemento mensile di “La Tribuna”, firmato da Carlo Gaspare Sarti, giornalista bolognese trasferitosi a Parigi nel 1908 si dischiude l’osservatorio sull’immaginazione noir di Macchiati: “Egli ha immaginato tutt’una serie di visioni trucidi sogni folli, di incubi terrificanti, destinata ad illustrare una monografia sulla paura. La monografia non ha ancora trovato chi la scriva; i quadri pensati da Macchiati sono invece tutti pronti e inediti. Se un giorno verranno resi noti al gran pubblico sono convinto che quest’artista riporterà̀ un successo singolarissimo. In quest’opera di pura immaginazione egli ha raggiunto una potenza d’espressione ed ha manifestato una sensibilità̀ che sgomentano: ha ammassato figure ossessionate, ha impresso su alcuni visi i segni delle più̀ tremende agitazioni, ha reso certi sguardi orrendamente affascinanti, ha messo brividi nelle carni; grida sulle labbra, demenze nei cervelli”.

La curiosità verso il romanzo poliziesco e il racconto dell’orrore maturata in Macchiati con ogni probabilità dietro la suggestione della lezione di Poe – diffusa, come è noto, in Francia grazie alle traduzione dei Tales of Mystery and Immagination di Charles Baudelaire – non è disgiunta dal desiderio di addentrarsi nel mondo del paranormale e delle scienze non convenzionali. 

Determinante, a tale proposito, appare la collaborazione con la rivista “Je sais tout”, prolungatasi per oltre un decennio, tra il 1905 e il 1916.
Lanciata dell’editore Pierre Lafitte con il sottotitolo “Enciclopédie Mondiale Illustrée”, tale rivista raggiungeva nel 1915 una tiratura di quasi 240.000 copie.
Al suo interno, la pubblicazione a puntate di romanzi e racconti di autori famosi come Gaston Leroux, Jules Claretie, Maurice Leblanc, Arthur Conan Doyle, si affianca ad articoli di natura scientifica inerenti il progresso tecnologico, le inchieste relative a fenomeni della società contemporanea e le cronache degli eventi mondani.

Numerosi sono i contributi apparsi in “Je sais tout” che, sotto le spoglie dell’informazione scientifica e delle inchieste di costume, lasciano trapelare le ansie identitarie della società della Belle Epoque. Vi ritroviamo la curiosità per crimini e deviazioni comportamentali, ma anche per i fenomeni della paranormalità.
La collaborazione di Macchiati, abbiamo visto, prende avvio già dal primo fascicolo del 1905 con la realizzazione delle illustrazioni del romanzo di Jules Claretie Moi et l’Autre. In questo filone si collocano le immagini di racconti come Le monsieur qui revient de loin, di Gaston Leroux, e L’homme qui à vu le diable, sempre di Leroux, per citare gli esempi più significativi.  Vale la pena citare a tale proposito Notre enquête sur l’au-delà, condotta da Andrè Arnyvelde con interviste a varie personalità del mondo letterario e scientifico, apparsa nel numero di dicembre del 1912. Macchiati realizza per quest’articolo due immagini: Une vision dantesque e Une apparition hallucinante. Quest’ultima, in particolare, richiama quell’artificio di materializzazione di fluidi immaginari emersi da uno stato allucinatorio. Riscontriamo nel supporto mediale dell’articolo un’illusione di autenticità, ottenuta nell’utilizzo di una doppia tecnica, quella del disegno e della fotografia. Non sembri azzardato richiamare tale commistione anche per l’invenzione illustrativa perseguita dall’artista, dove le icone emerse dell’inconscio appaiono come figure sovraimpresse, come su una lastra fotografica, al mondo reale.
Piace quindi concludere con le parole premonitrici con cui Baudelaire chiudeva Le voyage in Fleurs du Mal: “Nous voulons, tant ce feu brule le cerveau! Plonger au fond du gouffre, Enfer o Ciel, qui’importe? Au fond de l’inconnu pour trouver du nouveau”.  

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