di Giovanni Caselli

Azzo di Masetto – Scontro tra cavalieri (particolare di affresco fine sec. XIII)

Nella storia delle lotte tra Guelfi e Ghibellini la battaglia più importante nella storia della Toscana medievale fu quella di Montaperti, le cui conseguenze ebbero ripercussioni drammatiche anche su Dante e sul Casentino. Firenze e Siena avevano origini assai diverse. Firenze era un antico porto fluviale quando i romani raggiunsero la Valle dell’Arno nel II secolo a.C. e fondarono la colonia romana dove era in precedenza il porto villanoviano, poi etrusco. La pianura tra Firenze e Pistoia fu centuriata e i terreni assegnati ai veterani delle guerre di conquista. Siena, situata all’interno dell’Etruria rurale, era un piccolo centro abitato in epoca Romana, un crocevia noto solo come sosta dei pastori transumanti dall’Appennino alle Maremme, si sviluppò solo in epoca longobarda quando si intensificò il traffico terrestre lungo la strada di Francia, la nuova arteria per Roma, laddove questa incrocia la via delle pecore per i “paschi” delle Maremme.
Siena, nacque sul vecchio incrocio stradale che ne determinerà le fortune commerciali, nonostante l’assenza di vie d’acqua. Firenze diventò città di commerci grazie alle vie d’acqua e Siena grazie a vie di terra. Ambedue le città erano abitate da commercianti, banchieri e artigiani per la maggiore di origini levantine, come indicano i loro primi vescovi e santi e i cognomi. Mentre le città estendevano i loro interessi verso il Chianti, giunse il momento dello scontro.
Durante l’attrito, causato da futili motivi, le due città scelsero partiti opposti. Firenze parteggiò per il Papa e Siena per l’Imperatore, l’una era quindi guelfa e l’altra ghibellina, non per vocazione ma per scelta e antagonismo “campanilistico”. La rivalità economica si era tramutata in rivalità politica. La vittoria dei Senesi e dei loro alleati (tra i quali alcuni Guidi) a Montaperti segnò il dominio della fazione ghibellina sulla Toscana, con ripercussioni anche sui precari equilibri del resto d’Italia e d’Europa segnando di fatto il ruolo predominante della Repubblica di Siena sullo scenario politico ed economico dell’epoca. Il conflitto tra Guelfi e Ghibellini coinvolse Arezzo ghibellina e Firenze guelfa e coinvolse anche Dante Alighieri.
Alle radici del conflitto tra Arezzo e Firenze vi fu l’umiliazione di Firenze a Montaperti il coinvolgimento dei Guidi di Poppi e la lotta per l’egemonia sulla Toscana che Firenze temeva gli sfuggisse a favore di Siena. Fu così che nella pianura di Campaldino, che si estende tra Poppi e Borgo alla Collina, Firenze si scontrò e vinse una memorabile battaglia contro Arezzo e i suoi alleati Ghibellini il giorno di San Barnaba, 11 giugno1289. La battaglia fu il culmine di un lungo contrasto tra le due fazioni e un fatto determinante nella conquista, da parte di Firenze, del predominio sulla Toscana. Alla battaglia prese parte Dante ventiquattrenne e naturalmente ne scrisse nella sua Opera massima.
Le forze guelfe consegnarono le insegne di guerra il 13 maggio a Firenze e adunarono l’esercito nel Piano di Ripoli sulla Via Aretina per il San Donato dando l’impressione di muovere verso Arezzo per quella via. Questa fu invece una manovra strategica perché giunto a Paterno, l’esercito prese la Via di Vallombrosa invece di continuare per il Valdarno lungo la via che all’epoca portava ad Arezzo e a Roma.
L’esercito traversò l’Arno a Sant’Ellero, o a Rignano e si mosse verso Tosi, Pian di Melosa dove la strada romana per il Casentino conservava ancora tutto il basolato antico fino su all’Abbazia. Da lì l’esercitò raggiunse il crinale del Pratomagno e invece di scendere su Strumi e Poppi svoltò verso la Consuma e prese il tratturo delle pecore che portava da Borgo alla Collina a Pontassieve. Dalla Consuma l’esercito raggiunse la Badiola sotto Monte Pomponi, presso Fonte allo Spino, e si accinse a pernottare in quello spiazzo ampio in prossimità del bivio della strada per Romena e Borgo alla Collina.
I Guelfi che aspettavano l’esercito ad Arezzo furono colti alla sprovvista da questa manovra che in effetti fu suggerita dai guelfi aretini fuoriusciti. I condottieri dell’armata erano Guillaume de Durfort e Americ de Narbonne, appoggiati da Vieri de’Cerchi, Bindo Adimari, Corso Donati e il Barone de’ Mangiadori.
I Ghibellini si erano intanto diretti verso Bibbiena. I loro leader erano Gugliemino degli Ubertini di Chitignano, Vescovo di Arezzo, assistito da Guglielmino Ranieri dei Pazzi del Valdarno, detto “il Pazzo”, Guidarello di Alessandro da Orvieto, Guido Novello dei Guidi di Poppi e Buonconte da Montefeltro col fratello Loccio. Vi erano con loro truppe ghibelline di tutta Italia, e molte erano reduci della vittoria di Montaperti.

il castello di Romena
il castello di Romena

Gli aretini volevano raggiungere la piana di Campaldino prima che i Guelfi mettessero a sacco i possedimenti del Vescovo di Arezzo e dei Guidi. La nobiltà ghibellina sottovalutava schernendo la “civile mollezza” fiorentina non paragonabile alla fierezza di “cotanti cavalieri”. Questi fiorentini che “si lisciavano come donne e pettinavano le zazzere e gli aveano a schifo e per niente” (Giovanni Villani, VII, 131).
Si riteneva che nel fuggire le truppe guelfe sarebbero state tagliate a pezzi essendo impedite, dalla montagna nella loro fuga. Invece la battaglia si risolse sanguinosamente in favore dei guelfi, grazie a Corso Donati che invece di starsene in disparte attaccò la cavalleria aretina mentre Guido Novello si ritirò a Poppi invece di attaccare. Dante ci ha lasciato una testimonianza storica della sua partecipazione alla battaglia in una lettera oggi perduta indirizzata alla città di Firenze dove il poeta chiedeva che venisse annullata la sentenza di condanna emessa contro di lui, la lettera è resa nota da Leonardo Bruni e da Biondo Flavio che la intitolano “Popule mee, quid feci tibi?”.

Nel 1295 Dante era entrato in politica, in una fase di crescente tensione con il Papa Bonifacio VIII. Si schierò coi Guelfi Bianchi, che tentavano di difendere l’autonomia del Comune dalle ingerenze papali. Ma nel novembre 1301 Carlo di Valois, inviato dal papa a Firenze come ‘paciere’, consegnò il potere ai Guelfi Neri. Dante venne allora condannato e bandito nel gennaio, e poi definitivamente nel marzo 1302 e si trovò quindi in esilio a far fronte comune con gli antichi nemici ghibellini fuorusciti. Trascorse il 1302 e l’inizio del 1303 fra Arezzo, il Casentino, e la Romagna. Fra il marzo 1303 e il giugno 1304 è a Verona, ospite di Bartolomeo della Scala.

Dante fu non solo bandito ma ebbe la sua casa devastata e la condanna a morte. Tornato da Verona e ospite degli Ubertini partecipò al Consiglio Generale dei Guelfi Bianchi in esilio e si mise in cerca di alleati, nel Mugello, a Forlì, Treviso, Verona, fino a quando il Cardinal Niccolò da Prato fu fatto, da Papa Benedetto XI , mediatore in Toscana. A questo punto Dante tornò ad Arezzo la sede dei Guelfi Bianchi, dove fu incaricato di stilare una lettera al legato papale. La lettera fu scritta all’inizio di giugno del 1304 e diceva a nome dell’Universitas Alborum che gli espulsi, e rifugiati obbediranno in tutto e per tutto alle decisioni del mediatore.
Tuttavia, il 10 giugno, giorno in cui il Cardinale Niccolò da Prato partì da Firenze, i Guelfi Neri incendiarono diverse case in città, appropriandosi poi di tutti gli uffici pubblici. Il fratello di Dante, Francesco, si indebitò per aiutare il fratello; si recò personalmente ad Arezzo, ma il suo generoso tentativo non ebbe effetto. Nonostante tutto Dante riteneva la sua ingiusta condanna un onore, ed era convinto che prima o poi i suoi persecutori si sarebbero ravveduti. Il poeta era ad Arezzo e si sentiva isolato perché non era neppure d’accordo con le delibere dei Guelfi Bianchi, infatti questi ultimi erano destinati a morire, assieme ai loro alleati, in Val di Mugnone (Battaglia della Lastra n.d.r.)
Dante rimase poi in Casentino fino al 1313. Delle lettere pervenuteci di mano di Dante la maggior parte furono scritte in Casentino e lo stesso poeta ci dice dove in Casentino queste furono stilate: a) presso le sorgenti dell’Arno, b) lungo il corso dell’Arno e c) nel castello di Poppi. Il poeta sperava sempre di poter un giorno tornare a Firenze e lasciò il Casentino solo dopo aver perduto ogni speranza. A Poppi Dante aveva incontrato Gherardesca, moglie di Guido Novello e figlia del Conte Ugolino, la dama in verde dal lungo collo alla quale fa riferimento con passione nella più struggente delle Rime “sufi” deve essere proprio lei. Egli scrisse di lei a Marguerite la moglie dell’Imperatore Arrigo VII sul quale lui riponeva tutte le sue speranze.

Castello di Porciano – Stia

La data del 1313 fa supporre che Dante in quell’anno abbia incontrato Raimondo Lullo il grande studioso catalano che transitò probabilmente per il Casentino nel suo viaggio per la Sicilia e la Tunisia. Il giorno 8 giugno 1302 Dante era partito da Arezzo per San Godenzo, sicuramente passando da Porciano, quindi per le Crocicchie e poi scendendo da Castagno d’Andrea, si parla di sei ore di cammino o di cavallo. Il castello di Tegrimo di Porciano a San Godenzo è scomparso, ma la chiesa dove Dante firmò un famoso documento è ancora lì.
Tra San Godenzo e San Benedetto in Alpe, presso l’Eremo, si trova la famosa cascata dell’Acquacheta che Dante menziona (Inferno, XVI, 94-106). Nei suoi andirivieni tra Romagna, Veneto e Toscana Dante deve aver percorso anche la Via Romea dell’Alpe di Serra, specialmente per recarsi a Forlì e a Verona.
Pare che Dante abbia scritto il Purgatorio a Romena, ma la leggenda che egli si sia ispirato alla collina del Castello per concepire la struttura della Cantica è una favola metropolitana.
L’ispirazione di Dante viene indiscutibilmente da una lettura dell’Arda Viraf dell’Avesta, dal quale Dante non ha solamente tratto la morfologia dell’Aldilà, ma anche le pene e punizioni inflitte nei vari gironi. Basta leggere il Nameh di Adra Viraf per togliersi ogni dubbio. Il problema è sapere in quale traduzione Dante abbia letto il testo Parsi. Si potrebbe congetturare che l’abbia conosciuto mediante Brunetto Latini, a sua volta informato da Raimondo Lullo.

Romena, la fonte Branda nei pressi del castello
I versi di Dante riportati accanto alla fonte Branda (Inf. XXX)

Si presume che Dante fosse a Romena dal 1302, invece che ad Arezzo. Infatti Antonio Fiorentino scrive in un commento al verso 43° del canto XIV “poi ch’elli fu cacciato da Firenze, il primo luogo dov’egli arrivò fu Pratovecchio e quivi stette per alcun tempo poveramente”. Allora se il poeta, partendo o fuggendo da Firenze, si recò a Romena deve aver percorso la via più breve che allora esistesse, quella che lui conosceva, ossia la via di Rignano, Sant’Ellero, Pian di Melosa, Vallombrosa, Croce Vecchia, la Consuma, l’Ommorto, Romena, la continuazione della Via Gibellina di Firenze, così chiamata dai Guidi sia per celebrare la vittoria di Montaperti, sia poiché serviva loro per comunicare celermente tra Firenze e Poppi. Di ritorno a Romena dalla Lunigiana, Dante scrisse una lettera (Epistola IV) a Morello Malspina rivelandogli il suo innamoramento per una innominata ‘impossibile’ donna che presumo fosse la stessa Gherardesca e non una seconda contessa di Pratovecchio. I famosi versi:
“Così m’ha concio, Amore, in mezzo l’alpi,
ne la valle del fiume,
lungo il qual sempre sopra me se’ forte;
Qui vivo e morto, come vuoi, mi palpi,
Merzè del fiero lume
Che sfolgorando fa via a la morte.”
(Rime CXVI)