Piatti tipici toscani, la loro storia e le loro ricette
Il termine crostino richiama subito bocconcini appetitosi e in Toscana si lega soprattutto a quelli detti anche “neri” con i fegatini di pollo, diffusi su tutto il territorio ma con diverse varianti. L’etimo di crostino deriva dal latino crustum ovvero biscotto o da crustulum, crosta; in effetti si tratta di una fetta di pane reso duro come la crosta arrostendolo o friggendolo.
Ed è talmente è diffuso l’uso di questi Principii, per dirla con il grande Artusi, che in terra Toscana “essere un crostino” è anche identificato con una persona che lamenta vari malanni, quindi noiosa.
Quale strana correlazione leghi gli ottimi crostini con l’essere un crostino non è dato di sapere, ma forse intuibile, se pensiamo solo al pane duro che ne sta alla base…
Ovvero la descrizione della costa dell’Etruria fra realtà e leggenda.
L’articolo è tratto da Giovanni Caselli, Viaggio nell’Italia romana.
Strabone fu un geografo e storico greco vissuto nel I° secolo a.C. autore della Geografia, monumentale opera descrittiva delle regioni europee e mediterranee.
Il territorio dell’Etruria secondo la ripartizione di Ottaviano comprendeva la parte che Strabone chiama Tyrrhenia
Dicono che la lunghezza massima della Tyrrhenia -la costa da Luna ad Ostia- sia di di 2500 stadi (nell’antica Grecia lo stadio corrispondeva alla lunghezza di 600 piedi, nel sistema attico era uguale a 177,60 m, nell’alessandrino e a Roma a 184,85 m n.d.r.), la sua larghezza (dalle montagne al mare) meno di metà della lunghezza. Da Luni a Pisa la distanza è superiore a 400 stadi; da qui a Volterra 280 e da qui a Populonium 270; da Populonium a Cosa quasi 800, ma alcuni dicono 600. Polibio, tuttavia, dice che in totale (da Luna a Cosa) vi siano addirittura 1330 stadi. … continua a leggere La Tirrenia costiera di Strabone
-Nonna raccontami di quando eri bambina nella grande casa del Pian dei Poggioli a Scarperia, che mi piace tanto…
-Va bene Elia, ti racconto di come salvai lo zio Tonio che stava cadendo dal pagliaio. Avevo circa la tua età, 9 anni, quando…
-Scusa nonna, ma cosa è un pagliaio?
-Hai ragione Elia, tu non puoi saperlo perché oramai i pagliai non esistono più. Tu sei abituato a vedere le presse e le rotoballe che fa il nonno Beppe. Oggi ci sono macchine che raccolgono il fieno e lo restituiscono in varie forme geometriche tipo parallelepipedi e cilindri, ma quando avevo la tua età il fieno si tagliava con una falciatrice trainata da vacche chianine e dopo che il sole lo aveva ben seccato, si trasportava nell’aia con carri trainati da questi stessi animali e qui si costruiva il “Pagliaio” che a dispetto del nome non era di paglia, ma di fieno. Per prima cosa il mio babbo, il tuo bisnonno Guido, piantava nell’aia un palo lungo e dritto, come quello dei telefoni. Iniziava poi a impilare il fieno. Il mio babbo stava sopra al pagliaio e spandeva e sparpagliava ben bene il fieno che lo zio Tonio portava.
Zio Tonio – disegno di Sara Gianassi
Il fieno doveva intrecciarsi, come una tela. Più si saliva su di altezza e più il pagliaio si restringeva, assumendo la forma di un cono e da ultimo diventava talmente alto che il bisnonno Guido doveva scendere con una scala lunghissima. Il fieno veniva così conservato per nutrire le vacche e i buoi durante l’inverno. Costruire un pagliaio era un’arte e un errore poteva compromettere la conservazione del fieno. Un pagliaio ben fatto era impermeabile e il fieno, per conservarsi bene, doveva diventare molto compatto tanto che per toglierlo usavano il tagliafieno.
Il pagliaio tagliato
Prima si consumava un giro del pagliaio che diventava tutto dritto e poi si prendeva il fieno al centro che era più duro.
Tornando alla nostra storia, tu devi sapere che una gallinella aveva l’abitudine di deporre le uova in cima al pagliaio e lo zio Tonio la spiava per trovarne il nascondiglio. In un pomeriggio assolato di agosto, mentre stavo saltellando nell’aia, sentii la zia Beppa che da dietro il pagliaio chiedeva aiuto. Accorsi subito e davanti ai miei occhi apparve una scena tragicomica. Lo zio Tonio era aggrappato al pagliaio e rischiava di precipitare a terra, mentre la zia Beppa tentava di frenare la caduta reggendolo con un lungo forcone, rischiando di infilzarlo! Lo zio Tonio avendo scoperto il covo della gallina pieno di uova, per raggiungerlo aveva legato insieme due scalei, ma una volta conquistata la cima, sotto il suo peso gli scalei avevano ceduto ed ora il pover’uomo stava veramente in una situazione pericolosa.
Capii subito che potevo salvarlo solo andando a prendere la lunga scala che il bisnonno usava per scendere dal pagliaio, dopo la sua costruzione. Non so ancora spiegarmi come riuscii a trasportarla, forse con la forza dell’affetto che provavo per quell’uomo tanto semplice, quanto buono, genuino e generoso che invece di temere per la sua vita ci gridava di andare via perché temeva di ferirci cadendoci addosso. Ricordo solo che trascinai la scala fino al pagliaio e che la alzai con l’aiuto della zia Beppa. Fu così che salvammo lo zio Tonio, che anche dopo tanti anni mi ricordava sempre questa storia con gli occhi che gli brillavano di commozione. Una commozione non tanto legata al salvataggio, quanto a quel pagliaio la cui costruzione gli ricordava la gioventù, una sapienza antica faticosamente appresa dai suoi avi e che andava sparendo senza che lui potesse tramandarla.
-Grazie nonna, è una bellissima storia. Costruiamo un pagliaio tutti insieme e così gli occhi del bisnonno e dello zio Tonio brilleranno ancora di gioia e noi saremo ancora quella grande famiglia del Pian dei Poggioli, dove c’era posto per tutti.
giunto all’ omor che da la vite colà’ (Purg. XXV, 76-78)
Nella celebre terzina Dante descrive il vino come sintesi del calore del sole e della linfa prodotta dalla vite paragonando questo processo a quello che trasforma un essere vivente in creatura umana grazie all’intervento divino che v’infonde l’anima.
Libagione con vino rosso (Tacuina Sanitatis, XIV secolo)
Le concezioni mediche del mondo antico riprese nel medioevo attribuivano al vino indiscusse qualità salutari, fino a ritenerlo esso stesso un farmaco. Pier de’ Crescensi (1233 – 1320), uno dei più celebri agronomi del medioevo, studioso di filosofia e medicina scrive nel suo Trattato che “il vino dà buon nutrimento e rende sanità al corpo … conforta la virtù digestiva così nello stomaco come nel fegato … si converte in naturale e mondissimo sangue … fa dimenticare tristezza e angoscia … è dunque conveniente ad ogni età”. … continua a leggereVino e vendemmia nella Toscana del Medioevo
Quanto riportiamo è tratto dal testo scritto da Carlo Lapucci, Odissea di una parola rimossa: la pissera nella postfazione de “La Pissera” di Lo Russo, Moschini, Ugolini, dove le tre autrici dedicano alla protagonista siparietti ironici e spietati.
Ma chi è la pissera?
Nella postfazione, Carlo Lapucci, eminente studioso e narratore delle tradizioni popolari, percorre la storia della parola sottolineando come essa non compaia in alcun dizionario, ma che sia ben intesa da qualunque toscano… e aggiunge proponendo la definizione che segue:
“Principe di tutti i vini toscani è il Chianti, quello classico per intenderci, con il marchio del Gallo nero, deliziosa unione di prodotti di vitigni diversi (canaiolo, sangiovese, trebbiano, malvasia toscana)”.
Molti definiscono così il Chianti, senza voler nulla togliere agli altri prestigiosi marchi che nel tempo hanno arricchito il patrimonio vinicolo della nostra regione.
Ci riferiamo al Chianti Classico, quello rigorosamente proveniente dai vitigni della zona fra Firenze e Siena, … ContinuaIl Chianti “principe di tutti i vini”
Chi non conosce il giglio di Firenze che campeggia sullo stemma della città toscana, bianco su fondo rosso fino al XIII secolo e poi viceversa, come l’attuale, dopo l’affermazione dei guelfi sui ghibellini?
E quel giglio era diffusissimo non solo nelle campagne ma anche sulle creste e sui ripiani delle mura urbane, scriveva lo storico Repetti, chiamato e conosciuto come Giaggiolo o Iris di cui una varietà è detta appunto florentina proprio perché dal suo fiore, in forme stilizzate, è derivato il simbolo della città gigliata, a cui i fiorentini tengono da sempre: si racconta infatti che quando Napoleone propose nel 1811 di cambiare lo stemma risposero per le rime ai “nuvoloni”, come chiamavano i francesi, nomignolo ricavato ironicamente dai “nuos voulons” dell’incipit dei proclami. … Continua a leggereIl Giaggiolo non è solo un fiore…