di Alessandro Ferrini

Pietramala in una cartolina degli anni cinquanta

Pietramala è un paese dell’Appennino, situato tra il passo della Futa e quello della Raticosa lungo la SS65, la via Bolognese che il granduca Leopoldo di Toscana riedificò sui tratti degli antichi percorsi di cui si ha notizia già in epoca romana e che fin dai tempi più antichi univano l’Italia centro occidentale alla Pianura padana.

Scrive Emanuele Repetti nel suo Dizionario:

Villaggio con chiesa plebana (S. Lorenzo) e una dogana di frontiera di terza classe a circa 4 miglia toscane a maestrale di Firenzuola […] tra la dogana delle Filigare, l’albergo del Covigliajo o i così detti fuochi di Pietramala. […] Se il nome di Pietramala le sia derivato dalla qualità del sasso, o da qualcuna delle antiche pietre migliari della via che probabilmente nei contorni di Pietramala valicava l’Appennino per seguitare il cammino verso Bologna, mancano indizi da potervi appoggiare una plausibile congettura.

E a proposito dei “fuochi di Pietramala”:

D’indole, e natura diversa dall’acque minerali testé accennate è l’Acqua buja di Pietramala. Consiste questa in una piccolissima pozza d’acqua, situata in un avvallamento, o foce, frapposta tra Monte Beni e Montoggioli, circa 200 passi a libeccio di Pietramala. Tale è cotesta pozza, che non di rado trovasi senz’acqua, e asciutta; al presentarvi d’un zolfino, il terreno del piccolo bacino si accende in varie fiammelle, che un leggero vento però basta ad estinguere; senza che quelle fiamme tramandino sensibile odore di zolfo, di petrolio, di bitume, o di altra sostanza consimile. Mezzo miglio più lungi di là, verso levante, esistono da tempo assai remoto i terreni ardenti ossia i fuochi di Pietramala […] Nel luogo circoscritto dalle fiamme, i sassi di quell’arenaria, subiscono una cottura, e dal grigio si cangiano in color di mattone, come se fossero esposti al fuoco lento di una fornace […] Le fiamme sono costanti, meno il caso di vento impetuoso che le soffoghi; poco apparenti di giorno, si mostrano visibilissime anche da lungi di notte. Esse si alzano ordinariamente da terra circa un piede; ma in tempi piovosi o umidi prendono maggior forza e accrescimento.

I molti viaggiatori italiani e stranieri che dopo la costruzione della nuova strada edificata dai Lorena in tre anni, dal 1749 al 1752, transitavano in quei luoghi rimanevano assai colpiti dal fenomeno. Così racconta la sua esperienza nel libro Viaggio in Toscana Giuseppe Sacchi, membro della Reale Accademia di Scienze di Torino che si recava in viaggio a Firenze nei primi decenni dell’Ottocento e si era fermato per pernottare alla stazione di Posta di Covigliaio:

L’antica stazione di posta di Covigliaio, oggi Villa le Ortensie

Questa montuosa giogaia (l’Appennino n.d.r.), che percorre l’intiera penisola per la lunghezza di ottocento settantacinque miglia, si rivela in tutta la sua fiera maestà, appena si tocca il primo margine del territorio toscano a Pietramala. Mentre i doganieri di Filigara stavano scrupolosamente rovistando nelle valigie de’ viaggiatori che venivano meco per vettura sino a Firenze, io ed il mio compagno di viaggio traemmo a piedi a visitare gli avanzi vulcanici di Pietramala. Era il primo spettacolo di questo genere che ci si presentava allo sguardo, e volevamo studiarlo.

Lasciata da un canto la strada maestra, e presa una guida, ci volgemmo verso un altipiano sparso qua e là di eriche arsiccie e di ciottoli calcarei che parevano tanti lapilli gittati da un vulcano; ed il vulcano. Ed il vulcano non tardò infatti a mostrarci le sue fiammelle che ora s’alzavano, ora spegnevansi a seconda del soffiare del vento. Accostatici d’appresso, non vedemmo alcun indizio di cratere, ma solo una spianata deserta, nel cui mezzo sorgevano, a modo di un focolare da pastori, fiamme or cerulee, ora giallognole, che s’alzavano due piedi al più. Questo picciolo vulcano è detto da quelli del paese il fuoco del legno, perché cacciando in quel terreno de’ fusti di legno, questi tosto s’incendiano o carbonizzano. Provammo ad accostare de’ pezzetti di carta al suolo, e questi ardevano subitamente; frugammo nel terreno, turando le screpolature da cui uscivano le fiammelle, e queste cessavano per un momento, ma poi ripigliavano più frequenti e più vivaci: ci accostammo coll’orecchio al suolo, ed udimmo come un crepito sordo, simile a quello dell’ acqua quando ribolle: versammo dal nostro botticino da viaggio dell’ acqua a spruzzi su que’ fuocherelli, e questi scoppiettavano come polvere d’archibugio: fiutammo quelle fiammelle, e sentimmo un vivo odore di petrolio, misto talvolta ad un leggiero odor di zolfo: badammo all’ effetto che il vento facea su quelle fiamme, e le vedevamo ora spegnersi, se spirava assai forte, ora farsi più vive, se soffiava lievemente: toccammo il terreno, e non era neppur tiepido: lo calpestammo co’ piedi, e mandava un rumor cupo, come quello di una sotterranea volta: scherzammo a lungo con quell’igneo fenomeno, da che si poteva scherzare senza pericolo, e l’unico guasto che ne avemmo fu‘ quello di andarcene entrambi colle scarpe aduggiate. Varie sono le opinioni dei fisici intorno al vulcano di Pietramala. Il celebre Volta avea creduto che il gas idrogeno solforato che si svolge da questo vulcano microscopico, procedesse dalla combustione delle antiche selve sepolte nelle viscere dell’Appennino. Lo Spallanzani invece ne attribuì la causa alla scomposizione delle piriti, poiché il gas idrogeno solforato che si sviluppa, passerebbe per le vene del petrolio, ed acquisterebbe quell’odore bituminoso che è in esso caratteristico. Vi ha chi crede che questo altro non sia che l’ultimo avanzo di un vulcano, e vi ha chi pensa esser desso il principio di un vulcano futuro, i cui sviluppi diverranno col tempo terribili, appena le emanazioni piritiche verranno ad imbattersi con qualche ricca vena di zolfo, nel qual caso avverrebbe come del Vesuvio, che dopo essere stato taciturno per più secoli, fece poi quella terribile eruzione che distrusse tante città nell’anno settuagesimonono dell’era nostra.

Lapide che ricorda la visita di Alessandro Volta a Pietramala

Ma nel corso dei secoli i fuochi che scaturivano dal terreno suscitarono molti timori, superstizioni, paure ancestrali, la convinzione che fossero manifestazioni infernali e quant’altro. Molti erano sicuri che i “terreni ardenti” fossero la bocca di un vulcano tanto che, come nota Targioni Tozzetti, si rinvenivano in quei paraggi monete d’oro, idoli e amuleti gettati verosimilmente come doni propiziatori contro malefiche influenze infernali. Altri ne davano spiegazioni fantasiose. Ad esempio De Brosses nel 1740 ritiene che le rocce di Pietramala “assorbono la luce del sole e formano una specie di fosforo”.

I “terreni ardenti” attirarono anche l’attenzione di Alessandro Volta che nel settembre del 1780 si recò di persona sul luogo per studiarne le cause. Fu lo scienziato comasco a dare per primo una spiegazione scientifica della loro esistenza: “il terreno era intriso di metano (ormai estratto), distillato naturalmente da piccoli giacimenti di petrolio. Esso, fuoriuscendo dalle crepe dei terreni argillosi, si incendiava toccato dall’elettricità presente nell’aria.”

Foto ripresa dal giornale “Il filo del Mugello”

Le sorgenti dei fuochi erano localizzate in tre differenti punti, tutti situati nelle vicinanze del paese, e conosciuti con il nome di Fuoco del Legno, denominato nel Seicento Bocca d’Inferno (si narrava anche che i viaggiatori che si smarrivano di notte scomparissero inghiottiti dai precipizi), Fuoco del Peglio nei pressi dell’abitato omonimo e Acqua Buia, un piccolo bacino situato sopra il paese dove si raccoglievano le acque che ribollivano per l’uscita dei gas dal fondo che generava piccole fiammelle quando la conca era in secca. 

“Il fenomeno misterioso dovuto in realtà alla fuoriuscita di gas metano dal terreno cessò dopo primi tentativi di estrazione del petrolio nel 1895 ad opera di una società con a capo il marchese Carlo Ginori. L’impresa comunque non ebbe seguito vista la scarsa quantità di petrolio presente nel sottosuolo mentre il metano viene estratto ancora oggi, circa 1500 mc al giorno” (“La Nazione”, 26 marzo 2022).