
Nella Firenze della seconda metà del Duecento, con il notevole sviluppo della produzione e dei commerci, il livello di vita si era assai elevato e molti fiorentini agiati avevano comprato case di campagna e ville sulle colline circostanti. Camerata, posta sotto il colle di Fiesole fra San Domenico e le Cave di Maiano, era uno dei luoghi più ricercati.
Così lo stesso Boccaccio ci descrive questo luogo di villeggiatutura:
… dall’una delle parti della quale correva un chiarissimo fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e spezialmente in quel tempo che era il caldo grande, quanto più si potesse divisare. E secondo che alcuna di loro poi mi ridisse, il piano che nella valle era, così era ritondo come se a sesta fosse stato fatto, quantunque artificio della natu[1]ra e non manual paresse; ed era di giro poco più che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette di non troppa altezza, e in su la sommità di ciascuna si vedeva un palagio quasi in forma fatto d’un bel castelletto. Le piaggie delle quali montagnette così digradando giù verso ‘l piano discendevano, come né teatri veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all’infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il cerchio loro. Ed erano queste piaggie, quante alla plaga del mezzo[1]giorno ne riguardavano, tutte di vigne, d’ulivi, di man[1]dorli, di ciriegi, di fichi e d’altre maniere assai d’alberi fruttiferi piene, senza spanna perdersene. Quelle le quali il carro di tramontana guardava, tutte eran boschetti di querciuoli, di frassini e d’altri alberi verdissimi e ritti quanto più esser poteano. Il piano appresso, senza aver più entrate che quella donde le donne venute v’erano, era pieno d’abeti, di cipressi, d’allori e d’alcuni pini sì ben composti e sì bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore artefice gli avesse piantati; e fra essi poco sole o niente, allora che egli era alto, entrava infino al suolo, il quale era tutto un prato d’erba minutissima e piena di fiori porporini e d’altri. E oltre a questo, quel che non meno che altro di diletto porgeva, era un fiumicello, il qual d’una delle valli, che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di pietra viva, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e sprizzando pareva da lungi ariento vivo che d’alcuna cosa premuta minutamente sprizzasse; e come giù al piccol pian pervenia così quivi in un bel canaletto raccolta infino al mezzo del piano velocissima discorreva, e ivi faceva un picciol laghetto quale talvolta per modo di vivaio fanno né lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro. Ed era questo laghetto non più profondo che sia una statura d’uomo infino al petto lunga, e senza avere in sé mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser duna minutissima ghiaia, la qual tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo, potuta annoverare. Né solamente nell’acqua riguardando vi si vedeva il fondo, ma tanto pesce in qua e in là andar discorrendo, che oltre al diletto era una maraviglia. Né da altra ripa era chiuso che dal suolo del prato, tanto d’intorno a quel più bello, quanto più dello umido senti[1]va di quello. L’acqua, la quale alla sua capacità soprabbondava, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del valloncello uscendo alle parti più basse sen correva.
Qui si ambienta la prima novella della VII giornata (vai al testo integrale della novella), giornata dedicata alle donne che per essersi innamorate di altri uomini ingannano e beffano il marito.
Protagonista è Monna Tessa, sposata a Gianni Lotteringhi, uno stamaiuolo, … uomo più avventurato nella sua arte che savio in altre cose … . Un ricco artigiano dunque che lavorava raffinati tessuti di lana nella sua bottega situata nella contrada San Brancazio, si innamora di Federico Neri Pelagatti e attraverso la sua domestica gli fa pervenire un messaggio in cui lo invita alla sua villa di Camerata dove stava trascorrendo la villeggiatura da sola mentre il marito era rimasto a Firenze e saltuariamente si recava a trovarla.

Federigo, che ciò senza modo disiderava, preso tempo, un dì che imposto gli fu, in su ‘l vespro se n’andò lassù, e non venendovi la sera Gianni, a grande agio e con molto piacere cenò e albergò con la donna … Ma, non intendendo essa che questa fosse così l’ultima volta come stata era la prima, né Federigo altressì, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse ad andar per lui, ordinarono insieme a questo modo: che egli ognindì, quando andasse o tornasse da un suo luogo che alquanto più su era, tenesse mente in una vigna la quale allato alla casa di lei era, ed egli vedrebbe un teschio d’asino in su un palo di quelli della vigna, il quale quando col muso volto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la sera di notte se ne venisse a lei, e se non trovasse l’uscio aperto, pianamente picchiasse tre volte, ed ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del teschio volto verso Fiesole, non vi venisse, per ciò che Gianni vi sarebbe. E in questa maniera faccendo, molte volte insieme si ritrovarono.
Tutto andò bene per un certo tempo finché una sera in cui Federico doveva incontrarsi con Tessa il marito arrivò inaspettato alla villa senza che la moglie avesse avvertito l’amante di non venire. Monna Tessa assai contrariata per l’imprevisto ordinò di portare la ricca cena che aveva preparato in un giardinetto attiguo all’abitazione di servire al marito una misera porzione di carne salata e lessata.
Poco dopo Federico, ignaro del contrattempo, arrivò e iniziò a bussare alle porta; davanti allo stupore del marito che non sapeva spiegarsi chi potesse essere colui che si presentava alla porta a un’ora così avanzata della notte Monna Tessa gli spiegò che si trattava di un fantasma che si era presentato altre volte e che lei sapeva bene come scacciare perché glielo aveva insegnato una santa donna alla quale aveva raccontato il fatto. Recatasi vicino alla porta la donna disse al marito:
– Ora sputerai, quando io il ti dirò. – Disse Gianni: – Bene. – E la donna cominciò l’orazione, e disse: – Fantasima, fantasima che di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n’andrai; va nell’orto a piè del pesco grosso, troverai unto bisunto e cento cacherelli della gallina mia; pon bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né a Gianni mio; – e così detto, disse al marito:
– Sputa, Gianni; – e Gianni sputò. E Federigo, che di fuori era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta la malinconia, aveva si gran voglia di ridere che scoppiava; e pianamente, quando Gianni sputava, diceva: – I denti. – La donna, poi che in questa guisa ebbe tre volte la fantasima incantata, al letto se ne tornò col marito. Federigo, che con lei di cenar s’aspettava, non avendo cenato e avendo bene le parole della orazione intese, se n’andò nell’orto e a piè del pesco grosso trovati i due capponi e ‘l vino e l’uova, a casa se ne gli portò e cenò a grande agio. E poi dell’altre volte, ritrovandosi con la donna, molto di questa incantazione rise con essolei.