E perché meno ammiri la parola
guarda il calor del sol che si fa vino,
giunto al’ omor che da la vite colà’ (Purg. XXV, 76-78)
Nella celebre terzina Dante descrive il vino come sintesi del calore del sole e della linfa prodotta dalla vite paragonando questo processo a quello che trasforma un essere vivente in creatura umana grazie all’intervento divino che v’infonde l’anima.

Le concezioni mediche del mondo antico riprese nel medioevo attribuivano al vino indiscusse qualità salutari, fino a ritenerlo esso stesso un farmaco. Pier de’ Crescensi (1233 – 1320), uno dei più celebri agronomi del medioevo, studioso di filosofia e medicina scrive nel suo Trattato che “il vino dà buon nutrimento e rende sanità al corpo … conforta la virtù digestiva così nello stomaco come nel fegato … si converte in naturale e mondissimo sangue … fa dimenticare tristezza e angoscia … è dunque conveniente ad ogni età”.

Le testimonianze sull’apprezzamento di cui godevano il vino e l’aceto, suo derivato, sono numerosissime. L’importanza che la società toscana del tardo Medioevo attribuiva al vino portava addirittura a una rivalutazione sociale dei contadini che lo producevano come attesta un brano di una novella di Franco Sacchetti: questi non ‘villani’ dovrebbero essere chiamati ma ‘cortesi’ dal momento che preparano quel nettare per i cittadini.
Accanto alle virtù terapeutiche si riconosceva al vino – o ai suoi derivati come l’aceto – una funzione igienica. Il vino infatti è stato per lungo tempo la sola bevanda sicura dal momento che l’acqua spesso non era potabile; anzi l’abitudine di mescolare il vino all’ acqua rispondeva alla necessità di contrastare con una bevanda alcolica un liquido poco affidabile.

Nella Toscana dell’età di Dante, quando il popolamento della regione crebbe a livelli altissimi (circa un milione e 200 mila abitanti) il consumo di vino raggiunse cifre assai elevate contribuendo all’estensione della viticoltura in ampie aree della regione.
Per fare un esempio, Firenze, che allora con circa 100 mila abitanti era una delle quattro maggiori città europee, assorbiva nei primi decenni del Trecento circa 250 mila ettolitri di vino l’anno, per un valore complessivo, che a seconda dei prezzi, oscillava tra i 150 e i 300 mila fiorini; il vino venduto al minuto all’interno della città – soprattutto nelle numerosissime osterie – e sottoposto a forte tassazione, dava nel 1338 un gettito vicino ai 60 mila fiorini, che costituiva la più importante entrata per l’erario dopo quella proveniente dalla gabella sulle porte (G. VILLANI, XII, 92). Tanto per avere un’idea, allora il salario mensile di un maestro muratore poteva arrivare a 2-3 fiorini; un buon podere costava 150-200 fiorini.
(Giuliano Pinto, La viticoltura nella Toscana Medievale, in Storia del vino in Toscana a cura di Zefiro Ciuffoletti, Polistampa Firenze 2000).

La viticoltura era ampiamente diffusa nelle aree collinari e in quelle pianeggianti asciutte anche se le zone di alta qualità non corrispondevano esattamente a quelle che oggi conosciamo. A questo proposito le tariffe fissate dagli Ufficiali del Catasto per la valutazione delle rendite ci offrono informazioni preziose sulla qualità del vino in varie località della regione. Ad esempio leggendo i dati del Catasto fiorentino del 1427 si ricava che i vini più costosi e quindi presumibilmente i più pregiati erano prodotti nelle colline del Valdarno di Sopra e in Val d’Ambra, a Cennina e Galatrona (36 e 40 soldi al barile): si trattava di vini trebbiani, bianchi, quelli di maggior valore, e di vini ‘vermigli’. Ottima era anche la qualità (34-36 soldi il barile) dei vini prodotti sulle colline del Chianti fra Panzano e Radda. I vini meno pregiati erano quelli della pianura tra Firenze, Prato e Pistoia (soldi 14-16) e del territorio di Empoli (soldi 12). Evidente la differenza di valutazione tra vini prodotti in collina e quelli provenienti dalle pianure e, come dicevamo, la differente valutazione rispetto a oggi. Ad esempio i vini di Nipozzano, sopra Pontassieve dove possedevano terre estese i Frescobaldi, della Valdipesa e di Carmignano avevano una valutazione medio-bassa (24 soldi), mentre alcuni vini del Mugello arrivavano fino a 30-32 soldi. Mentre i vini di gran parte del Chianti, di Carmignano e di Montepulciano, divennero celebri in epoche successive.
La vendemmia era una delle operazioni agricole più importanti dell’ anno poiché, allora come oggi, dalla scelta dei giorni dipendeva in buona misura la qualità del vino tanto che i contadini erano obbligati a chiedere il consenso dei proprietari prima di iniziare. Addirittura in molti luoghi della Toscana la decisione era demandata alle autorità.
Il trecentesco Statuto della Lega del Chianti riporta quanto segue: molti sono quegli che per bisogno et chi per non havere vino in casa [ … ] vendemmiano le loro vigne prima che l’uve sieno mature, che gran danno ne riceve la Lega perché non possono essere buoni vini et non si possono poi al tempo vendere.

Ovviamente le date della vendemmia variavano a seconda delle zone e della stagione. In Lucchesia l’inizio della vendemmia veniva determinato di norma dalle autorità comunali nel giorno della Santa Croce (14 settembre); le comunità dell’Amiata prescrivevano che si dovesse cominciare dopo la festa di San Michele (30 settembre) per l’uva bianca e dopo l’8 di ottobre per quella nera. Anche nel Chianti la data prescelta per della vendemmia era il 30 settembre. A Montalcino lo Statuto comunale del 1415 disponeva che per la festa della Santa Croce (14 settembre) si stabilisse la data in cui vendemmiare.
Nel valutare queste date, in comparazione con tempi a noi più vicini, occorre tuttavia tener conto che nel basso Medioevo il calendario giuliano era indietro di 7-8 giorni rispetto all’anno solare e che solo con la nota riforma di papa Gregorio XIII, nel 1582, si eliminò tale differenza. Questo significa in sostanza che nei secoli XIII-XV ci troviamo di fronte a vendemmie in genere abbastanza tarde, che corrispondevano agli ultimi giorni di settembre e ai primi di ottobre; il che confermerebbe l’ipotesi di un raffreddamento del clima negli ultimi secoli del Medioevo.
Bisogna accennare anche a una raccolta precoce dell’uva che veniva effettuata con scopi diversi dalla vinificazione. In moltissime parti della Toscana ad agosto si raccoglievano grappoli d’uva acerba per fare l’agresto, succo utilizzato come condimento dei cibi sulle mense dei ricchi. Il liquido uscito dalla spremitura dei grappoli acerbi veniva posto in un vaso al sole con l’aggiunta di sale; dopo due o tre giorni l’agresto era pronto. (op.cit.)

Recisi i grappoli e raccolti in cesti e gerle venivano poi rovesciate nelle bigonce, contenitori in legno dalla forma tronco-conica. Qui avveniva una prima pigiatura utilizzando un bastone chiamato “mostino”; le bigonce venivano poi portate nella tinaia e il contenuto versato nei tini dove si completava la pigiatura con i piedi nudi. (A tal proposito Pier de’ Crescenzi raccomanda che gli addetti alla pigiatura si lavino accuratamente i piedi e li coprano con panni per evitare che gocce di sudore cadano nel mosto).
Seguiva la fermentazione del mosto che durava 10-15 giorni e durante la quale veniva regolarmente mescolata la parte superiore del tino per togliere le vinacce che emergevano durante la fermentazione, in questa fase era anche praticato l’uso di “governare” con mosti di pregio per migliorare la qualità del vino; terminata la bollitura avveniva la “svinatura”, ossia il liquido veniva fatto passare nelle botti per l’invecchiamento.
La vinaccia che rimaneva sul fondo del tino veniva mescolata all’acqua producendo un vinello leggero, l’acquerello.
Fin qui vediamo che il processo di vinificazione era simile a quanto avviene oggi. Ma allora, senza l’intervento della chimica che introdurrà solo nell’Ottocento sostanze come il bisolfito a garantire che il mosto non prendesse l’aceto, era frequente che il vino si alterasse o comunque non durasse a lungo. In tal caso si ricorreva alla pratica del “raconcio”, cioè si faceva ribollire il vino in nuove vinacce e se anche questo espediente falliva diveniva inesorabilmente aceto.
di Alessandro Ferrini
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