da Guido Carocci, Firenze scomaparsa. Ricordi storico artistici, Firenze 1897

La tettoia così detta dei Pisani era una struttura architettonica che si trovava in piazza della Signoria, di fronte a Palazzo Vecchio. Fu fatta costruire nel 1364 dai prigionieri pisani catturati dopo la battaglia di Cascina. La tettoia serviva come riparo e come luogo di ritrovo per venditori ambulanti e sfaccendati. Quando Firenze divenne capitale del Regno d’Italia, nel 1864, la tettoia e tutto il complesso adiacente venne demolito per far posto a Palazzo Lavison. Così ne scrive Guido Carocci, Firenze scomparsa. Ricordi storico artistici, Firenze 1898:
“Rammentava un triste periodo ed un tristissimo episodio della storia toscana, quell’ampia e massiccia tettoia che sorretta da grandi mensoloni di legno sui quali poggiavano travi e travicelli, sporgeva da una vecchia ed informe fabbrica situata proprio di prospetto a Palazzo Vecchio. La tettoia sovrastava, difendendole dal sole e dalla pioggia, una serie di finestre che aprivansi nel vano murato di vecchie arcate a cunei di pietra e quelle finestre illuminavano gli uffici della posta delle lettere1. La posta di Firenze, senz’ essere né elegante, né comoda, aveva così un aspetto singolare, unico nel suo genere e che stava, si può dire in armonia col tipo originalissimo della vecchia città. Sull’angolo verso Calimaruzza un ampio portone dava accesso ad un atrio che serviva di ricetto ai carrozzoni delle vecchie corriere postali e dall’opposto lato, verso Vacchereccia sorgeva una massiccia e bruna torre di considerevole altezza, per quanto alla pari di tutte le altre della città fosse stata scapezzata quando il governo popolare volle fiaccare l’alterigia e la prepotenza dei grandi.
Ma facciamo un po’ di storia di questa località. Una chiesa, tra le più antiche parrocchie di Firenze, S. Cecilia, sorgeva quasi nel centro di questo gruppo di fabbriche che formavano una specie di rettangolo. Corrispondeva colla sua fronte in una piccola piazzetta che da lei traeva nome, e che delle viuzze, strette ed oscure mettevano la comunicazione colla piazza di Mercato Nuovo, con Via Vacchereccia e con Calimaruzza, in antico Calimala Francesca. Attorno a questa chiesa, e lo ricordano nelle loro storie il Malispini ed il Villani, inalzavansi le case, i palazzi le torri di varie famiglie, antichissime d’origine, consorti tra loro e seguaci per la maggior parte della fazione Ghibellina. Quelle dei Guglialferri, de’ Tebalducci e de’ Malispini. Verso Vacchereccia ebbero case e torre gl’ Infangati, passate dipoi nei Baroncelli, i Riccialbani, i Cavalcanti. Le case de’ Guglialferri, de’ Tebalducci, parte di quelle de’Malispini dai loro proprietari, condannati al bando e cacciati dalla città perché nemici della dominante parte Guelfa, passarono nelle mani del Fisco e più tardi vennero cedute all’ Arte del Cambio la quale vi stabiliva la residenza de’ propri consoli. L’arte del Cambio, una delle Arti Maggiori, era anche una delle più ricche, giacché in un periodo di tempo il commercio bancario procurò a Firenze ricchezze infinite. Sono ben note nella nostra storia le società commerciali costituitosi a Firenze tra diverse cospicue famiglie, le relazioni che ebbero all’estero, l’importanza che assunsero, i patrimoni che costituirono e successivamente le catastrofi ed i fallimenti onde furono passive, quando l’altrui malafede e le vicende politiche e militari si unirono ai loro danni. Basterà ricordare fra le grandi case bancarie fiorentine quelle de’ Bardi, de’ Peruzzi, de’ Medici ecc. L’arte del Cambio che aveva anche sotto la sua dipendenza la Zecca, fu ricchissima di beni, tanto in città che nelle vicine campagne e la sua residenza che aveva accesso da Calimala Francesca, era, secondo ne fan fede i ricordi e gl’inventari, degna per eleganza di arredi e per ampiezza di locali dell’importanza e della ricchezza di questa corporazione.
Il gruppo di fabbricati dov’erano la chiesa di S. Cecilia, ed altre case e che fronteggiava Palazzo Vecchio subì notevoli alterazioni nel corso di vari secoli . Gualtieri di Brienne Duca d’Atene volendo ampliare da questo lato la piazza, ordinò la demolizione di tutte le case che facevano linea con piazza de’ Signori; ma il lavoro rapidamente iniziato colla distruzione di varie torri e della parte superiore delle diverse fabbriche, rimase interrotto quando l’oppressore della città venne cacciato a furia di popolo. Restarono quei fabbricati in stato rovinoso per molto tempo, fino cioè alla guerra lunga ed accanita che per varii anni si combatté con varia sorte tra le due repubbliche sorelle di Firenze e di Pisa.
Entrambe avevano potenza di milizia, d’aiuti, di denari, l’uno e l’altro popolo erano vicendevolmente eccitati da uno spirito di inimicizia e d’odio che da lungo tempo s’era accumulato ed inacerbito, quindi la lotta si accese gagliarda, pertinace, violenta e si prolungò perché quasi pari erano le forze onde i due popoli potevano disporre. Il primo periodo di questa guerra arrise alle milizie fiorentine che guidate da abili condottieri invasero, corsero, posero a fuoco, predarono il territorio nemico. Bonifazio Lupi, Ridolfo di Varano, Paolo Farnese, Pandolfo Malatesta, Arrigo di Monfort, celebri condottieri di milizie ebbero successivamente il comando delle forze fiorentine e recarono il terrore, lo sbigottimento nelle terre del Pisano. Nel 1362 Perino Grimaldi a capo delle galere che la repubblica fiorentina teneva sul mare, assalì Porto Pisano, l’espugnò e qual trofeo di vittoria mandò a Firenze le spezzate catene che chiudevano l’ingresso di quel porto. Ed i fiorentini, qual simbolo di vittoria, le appesero parte alle colonne di porfido che stan dinanzi a S. Giovanni e che essi avevano avuto in dono dai Pisani dopo la guerra delle Baleari e parte all’esterno delle porte principali della città. Pandolfo Malatesta poi, assaltando con grand’ impeto i castelli della repubblica Pisana, conquistò la Val d’ Era e si spinse arditamente con buon nerbo di truppe fin sotto le mura di Pisa riportando il 29 luglio del 1364 presso Cascina una brillante vittoria. Grandissime furono in quella giornata le perdite de’ Pisani, molti dei quali caddero prigionieri e vennero con grande scherno ed allegrezza trasportati a Firenze, per render più solenne e più grandioso lo spettacolo della vittoria.
I semplici soldati furono caricati e stipati in delle incomode carrette, i capi della milizia ed i cittadini più cospicui vennero posti a cavallo di cadenti e magri ronzini o di giumenti in segno di scherno e di dileggio e dopo aver servito a dar triste spettacolo dell’odio che divideva due città sorelle, vennero chiusi ed ammassati in diversi locali convertiti per la circostanza in carceri. Né paghi del trionfo e dell’umiliazione imposta ai Pisani, vollero i governanti della repubblica, che i prigionieri fossero come modesti operai impiegati nella costruzione di pubblici edifizi. Fecero costruire loro il ponte che attraversa il torrente Greve sulla Via Pisana e poi, sulle cadenti rovine delle case che prospettavano la sede del governo, fecero loro innalzare una gran muraglia e la tettoia che servir doveva di asilo e di rifugio negli eccessi delle stagioni. Ebbe così ragione e vita quel tetto che dai loro miseri ed umiliati costruttori si disse de’ Pisani e che si volle lungamente conservare come triste monumento di lotte fraterne. Ma, la lotta non era cessata colla vittoria de’ Fiorentini, perché i Pisani maggiormente eccitati dal desiderio di vendetta, fecero nuovi ed estremi sforzi, assoldarono uno de’ più arditi e più astuti condottieri di quel tempo, l’inglese Giovanni Hawkwood, detto l’Aguto e coll’impeto di una fiumana piombarono sul territorio fiorentino. La sorte delle armi si cambiò di un subito, i fiorentini non poterono sostenere l’urto gagliardo e le fiorenti colline che attorniano Firenze, le ubertose campagne del nostro territorio furono arse e saccheggiate dalle milizie dell’Aguto.

Continuò la guerra per vario tempo ancora con alternativa di successi e poi quando i due popoli furono stanchi e sfiniti per l’immane lotta, accettarono le condizioni della pace che sotto gli auspici il Papa Urbano V, venne fissata nel congresso di Pescia. Il tetto de’ Pisani rimase a ricordar quelle vicende ingloriose e servi per il corso di secoli a protegger dal sole e dalla pioggia prima la gente che oziava per la città, poi coloro che avevano occasione di recarsi alla posta delle lettere istituita nei locali che servirono già di residenza all’arte del Cambio. L’edifizio, dalla costruzione della tettoia in poi aveva subito poche trasformazioni e colla sua linea irregolare, inelegante, priva di qualsiasi decorazione, pareva serbasse le tracce della distruzione ordinata dal Duca d’Atene. Nessuna traccia era rimasta della chiesa di S. Cecilia stata soppressa nel 1783 e solo sull’angolo di Vacchereccia s’innalzava tuttora la massiccia torre appartenuta agl’Infangati, poi ai Bandini-Baroncelli ed al pianterreno della quale ebbe un giorno la sua bottega l’insigne pittore Antonio del Pollaiuolo. Delle antichità medioevali fiorentine, giunte fino ai nostri tempi, se era fra le più caratteristiche, era anche delle più brutte e pochi rimpiangeranno la distruzione di un edifizio che colla sua massa inelegante e triste pareva evocare il ricordo ormai scomparso dalle secolari inimicizie che tennero divise due città sorelle facendo sparger tanto sangue e tante lacrime.”
1. Oggi nel luogo dell’edifizio al quale era addossato il tetto de’ Pisani è un gran palazzo moderno costruito sullo stile fiorentino del xv secolo, non privo di meriti artistici, ma nel quale fa difetto quella grandiosità solenne che si osserva e si ammira nelle fabbriche di quel tempo
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