di Salvina Pizzuoli

Livorno il porto (XVII secolo)

Immaginiamo un approdo nel porto di Livorno.

È una giornata come tante altre degli inizi del XVII secolo:

Quello che colpisce immediatamente, parafrasando Elias Canetti ne “Le voci di Marrakesh”, è la forza di quelle “strane grida” e dei suoni di quelle parole sconosciute, un universo linguistico e somatico che accompagna il viaggiatore sin dall’attracco.

Galea XVII secolo

Siamo nel porto mediceo, completato sotto Cosimo II nel 1618 ma la cui costruzione ha occupato un lungo spazio di tempo e l’opera di quattro granduchi. Nel porto varie galee all’ancora e un via vai di facchini che trasportano il carico distribuendolo su diversi navicelli che, lungo i canali, raggiungeranno i vari magazzini. La città fortificata ci accoglie possente tra le sue mura dalla struttura a stella, una stella a cinque punte, con altrettanti bastioni, terrapieni e fossati con acqua e nuove punte, insieme a quel pullulare di genti dai colori e fisicità diversificate dalla matrice etnica, voci, linguaggi e accenti diversi a seconda delle attività svolte e degli utilizzi nei diversi settori che caratterizzano l’attività portuale: la lingua ufficiale del Granducato è l’italiano, ma circolano diversi dialetti, toscani e non; molti tra i facchini provengono da Bergamo o dalla Valtellina o dalla Svizzera e si esprimono nella loro lingua originaria; il bagito o bagitto è un dialetto molto particolare, una gran commistione di giudeo-livornese, con una base prossima all’italiano con componenti toscane, spagnole, portoghesi ebraiche e tracce di greco e di yiddish, e caratterizza le comunicazioni con cristiani ed ebrei provenienti da altre parti della penisola, ma anche il portoghese o meglio detto giudeo-portoghese è utilizzato nei documenti ufficiali dagli ebrei mentre l’ebraico resta la lingua del culto, quella dei testi sacri.

La città e il porto di Livorno 1556
Livorno, la piazza d’armi oggi Piazza Grande

E in questo bailamme linguistico avvengono gli scambi e le transazioni e si stipulano affari commerciali e nelle dogane non mancano i vari interpreti “periti nella lingua turchesca, moresca, schiavone, todesca” la cui presenza e funzione era già stata prevista e indicata nelle Lettere Patenti o Livornine emanate dal 1591 al 1593.

A che si deve questa presenza eterogenea e variopinta che incanta e stupisce il viaggiatore?

È la conseguenza delle Leggi Livornine emanate nel 1593 da Ferdinando I Medici che, insieme all’istituzione del porto franco, avevano lo scopo di attirare soprattutto mercanti ebrei per sfruttare la loro fitta rete commerciale e dare così un grosso impulso economico alla città. La Costituzione Livornina concedeva a tutti i mercanti stranieri che si trasferissero in Livorno o Pisa un’ampia serie di privilegi e immunità ma voleva rivolgersi soprattutto agli ebrei che, essendo perseguitati in tutti i territori assoggettati alla Spagna, avrebbero accolto con interesse la possibilità di praticare liberamente il loro culto, possedere libri ebraici e insegnare l’ebraismo. In molti infatti accolsero favorevolmente la proposta tanto che la comunità ebraica assomma in questo primo scorcio del XVII secolo al 10% della popolazione, ma non aspettatevi di trovare un ghetto: assolutamente no, tra il bastione del Casone e la collegiata di San Francesco nella grande piazza d’armi, il quartiere ebraico con la Sinagoga accoglie anche turchi e cristiani, mentre altri ebrei vivono in quartieri della Nuova Venezia o i ricchi nella via principale.

La Venezia XVIII

Ma la libertà di culto non è solo appannaggio dei perseguitati ebrei, anche gli schiavi turchi ad esempio, quelli che muovono a forza di remi le possenti galee o lavorano all’interno dei grandi cantieri, hanno nel Bagno dei forzati, tra il porto e la grande piazza d’armi, piccole moschee e sono liberi di professare la loro religione e sono seppelliti secondo il rito turco, in quell’area detta appunto Campo dei Turchi; come loro Christiani, hebrei e mori e heretici possono liberamente professare la loro fede: il cimitero ebraico era stato addirittura previsto dalle livornine del 1593, lo trovate di fronte alla Fortezza nuova. E, senza allontanarvi troppo, tra la Fortezza vecchia e la nuova, eccovi giunti alla  Venezia detta anche Venezia Nuova: e sì perché a Livorno il mare arriva dovunque e porta anche lontano come avviene grazie al Fosso dei Navicelli, che permette da Livorno di giungere a Pisa dove le imbarcazioni s’immettono in Arno e così il porto si apre anche all’interno delle terre granducali; come la città lagunare ha tanti canali, che qui si chiamano fossi, e quello più importante è il fosso reale che cinge le grandi e possenti mura pentagonali. E non dimentichiamo che questa particolare e unica città è nata, è stata creata e inventata e pennellata da grandi artisti come Bernardo Buontalenti e l’architetto senese Giovanni Battista Santi. La Venezia nacque per rispondere alle nuove esigenze della città che era cresciuta a dismisura e la zona era destinata ad accogliere non solo nuove abitazioni, ma magazzini e depositi per grani, sale, olio, tutti accessibili dal porto per via d’acqua. Il nome le derivò dal fatto che fu costruita su palafitte, alla moda di Venezia da maestranze veneziane. In questa parte della città vivono navicellari, pesciaioli, facchini, le donne e i ragazzi spesso condividono il lavoro dei capofamiglia, ma molte donne fanno le serve.

Un facchino , porto di Livorno XVII secolo

Ma perché i facchini di Dogana dovevano provenire da paesi esteri?

Perché non avessero alcun legame né di parentela né di conoscenze che potessero condizionare la regolarità e la legalità delle operazioni doganali!

Che viaggio straordinario quello nella Livorno cosmopolita, tollerante, aperta e disponibile alla convivenza nel rispetto delle differenze la cui espressione più evidente è stata la creazione di una lingua, manifestazione di quella incredibile pluralità.

Veduta di Livorno

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