di Luisa Di Tolla

Fra il 1743 e il 1767 accanto ai più noti stampatori1, a cui deve aggiungersi la Stamperia granducale voluta da Cosimo III nel 1699 e divenuta imperiale dal 1745, esisteva un fittissimo reticolo di librai che erano in grado di offrire ai residenti ed ai visitatori un ampio e diversificato ventaglio di letture; la maggior parte di essi aveva le botteghe nei quartieri centrali ed in luoghi altamente frequentati, come la libreria di Joseph Bouchard, posta al Mercato Nuovo, nel cuore di Firenze, o come quella di Giuseppe Molini, situata nella centralissima piazza del Duomo e poi in lungarno degli Archibusieri, di fronte al Corridoio vasariano, oppure come il negozio di libri e la stamperia di Ranieri del Vivo, presso la Badia fiorentina, o infine, come la bottega di Sant’Apollinare gestita da Giovacchino Pagani, posta in piazza San Firenze, in una posizione strategica davanti al Fisco ed alle carceri.

L’alto numero di librai si spiega anche tenendo conto del fatto che molti stampatori, per ammortizzare le perdite, diversificavano i propri investimenti aprendo librerie e cartolerie. Queste botteghe, dove assieme al tè, alla canapa, ai filati di refe ed alle pezze di lino, venivano commercializzati i libri stampati in proprio oltre quelli stampati da altri editori sia toscani che esteri, divennero, a partire dalla metà degli anni ’30, importanti luoghi di socialità laica, legata ai circoli massonici fiorentini: ne è un esempio la libreria del Rigacci, nota per essere un centro di diffusione di opere eterodosse.
Nelle librerie, come nei caffè, nei teatri, nei gabinetti di lettura, nelle biblioteche, anch’esse aperte al pubblico-la Magliabechiana dal 1747 e la Marucelliana dal 1752- si cementavano amicizie, accomunate dalla passione del libro, fra un “nuovo” pubblico di lettori. “Nuovo” perché quantitativamente più ampio grazie all’espansione del mondo delle professioni e della burocrazia statale, ma anche qualitativamente diverso da quello precedente, perché composto da giovani senza grosse disponibilità finanziarie e donne. In questi luoghi d’incontro e di scambi culturali, magari sorseggiando una tazza di cioccolato o di tè, si affermò la pratica di una lettura diversa, ispirata all’utilità oltre che al piacere.
Il commercio librario era però favorito da un elemento che testimonia il perdurare in Toscana dell’antico regime tipografico, ovvero il basso profilo istituzionale della professione; i librai e stampatori fiorentini non avevano infatti un’autonoma arte e, fino alla sua soppressione nel 1770, dipendevano dalla medievale Arte dei Medici e degli Speziali. Questa difficile condizione rendeva gli operatori del settore estremamente fragili sotto l’aspetto finanziario.

L’espansione del consumo librario che si verificò in Toscana nel corso del ‘700, si deve in gran parte anche alle capacità con le quali gli stampatori seppero rispondere ai diversi interessi di un pubblico più esigente. Un pubblico attratto non soltanto dai generi tradizionali come quello religioso e giuridico, ma anche da generi nuovi: dall’agricoltura e dall’agronomia, dalle scienze naturali ed applicate, in particolare la medicina e la chimica, dall’attualità politica e più tardi dalla produzione erotica.
A Firenze, a differenza di quanto accadeva a Parigi, dove il mercato dei libri erotici era appannaggio di piccoli librai, esso era controllato dai grandi librai-mercanti. A causa del suo messaggio dissacrante e di sovvertimento delle gerarchie sociali, il mercato del libro erotico e licenzioso venne duramente represso dal governo leopoldino, da sempre poco incline a concessioni in fatto di morale.
1 Fra i quali: Pietro Gaetano Viviani, Domenico Maria Manni, Bernardo Paperini, Giovanni Gaetano Tartini e Santi Franchi, Anton Maria Albizzini, Michele Nestenus e, dal ’57, Francesco Moücke.
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