Dalle fonti antiche e secondo l’osservazione dell’antropologo

Con particolare riguardo al paesaggio toscano

di Giovanni Caselli

Melo cotogno

Il pino è un elemento  essenziale del paesaggio italiano classico, Plinio non poteva che classificarlo terzo nella sua dettagliata descrizione degli alberi utili. Il quarto albero da frutto è per Plinio il cotogno, un frutto – ingiustamente ignorato oggigiorno – di origine cretese, col suo evocativo nome di Crysomela. Il melograno è il quinto frutto, assieme alla rarissima pesca. Il melograno aveva associazioni simboliche, soprattutto connesse con la fertilità, la stele di Londa (V sec. a.C.) mostra una donna seduta – la defunta – che regge una melagrana.

La Persica, ossia la pesca, ha un nome che ne tradisce l’origine. Proveniva infatti dalla Persia, non era nemmeno comune in Asia, dice Plinio, i Persiani l’avevano ottenuta dal paese dei Tochari, i misteriosi indoeuropei delle oasi della Via della Seta in Cina. Plinio dice che questo è un frutto di recente introduzione, raro in quanto difficile da coltivare. Pesche e susine incominciarono a essere coltivate in Italia dall’epoca di Catone in poi. La prugna, Prunus, più nota era una varietà mezza bianca e mezza viola; ve n’erano tre o quattro varietà italiane, ma si dice che l’armena avesse un profumo incomparabile.

Il giuggiolo (Zizipa), che mai mancava presso ogni casa di mezzadro, veniva dall’Asia. Le mele migliori erano quelle di Media (Kurdistan); la mela era il frutto più diffuso e con il maggior numero di varietà, sia ibride che pure. Anche di pere ce n’erano in gran quantità e varietà, la superba era quella più comune sulle mense, ma la crustumiana era la più squisita. Plinio cita decine di varietà di pere assieme alle loro distinte qualità. Cosa sarebbe la campagna Toscana, senza l’onnipresente fico dottato o verdino, che cresce sul ciglio della strada o presso la fonte? Eppure in Etruria non si sapeva cosa fosse un fico, finché la pianta non arrivò con i mercanti egei dalla Calcidice e da Chios. I fichi neri vennero invece dall’Africa al tempo di Augusto, e quelli di Alessandria erano considerati delicatae.

Gherigli di noce un ingrediente per il castaganccio

Il noce, altro albero oggi comunissimo nel Casentino, non poteva mancare nell’elenco pliniano, tuttavia, il suo nome greco iuglandes tradisce la sua origine orientale. A Roma la noce divenne simbolo del matrimonio in quanto il suo seme è protetto da diversi strati. Prima dell’invenzione dei confetti la sposa gettava le noci ai ragazzi che portavano le fiaccole durante la cerimonia. Il rumore delle noci che cadevano al suolo era simbolo e incoraggiamento alla gioia. Il mallo della noce era usato anche qui in Casentino per tingere la lana, in tempi anche recenti. Le donne (e forse anche gli uomini) che incanutivano, ricorrevano alle giovani noci, che infrante e passate sopra i capelli, gli davano un colore rosso scuro simile all’ hennè. La nocciòla, ossia la avellana (da Avellino in Campania, secondo Plinio), è autoctona in Italia, ma varietà più grosse vennero dal Ponto. A Roma si vendevano tostate sulle bancarelle in inverno. Le mandorle comparvero in Italia all’epoca di Catone che le chiama infatti noci greche.

Il castagno non si é affatto diffuso in Italia nel medioevo, ma assai prima. E’ questa una pianta che, prima dell’arrivo della patata, costituiva l’essenziale alimento per i pastori delle montagne che vivevano sopra la linea di crescita dei cereali. Questo frutto squisito sostituì l’amara ghianda e la magra faggiòla già in epoca romana. I Romani facevano larghissimo uso delle castagne e della farina di queste, nonché del preziosissimo legno di castagno. Plinio dice che la castagna è buona se arrostita; magari la farina arrostita è migliore, e il pane che se ne ottiene viene consumato dalle donne quando osservano il digiuno. Il castagno viene dall’Asia Minore, Plinio dice da Sardis, i Greci le chiamavano sardianos prima di chiamarle, come fanno, Dios balano. I Romani ne conoscevano più varietà di noi, coltivavano la pianta, innestandola e ottenendone molti ibridi.

Gelso nero
Frutto del gelso nero

Il moro nero o gelso nero non è stato importato dalla Cina per la coltivazione del baco da seta, come molti incautamente asseriscono, questo esisteva in epoca romana, è il moro bianco, che venne invece dall’Oriente all’epoca di Giustiniano, quando si scoprì il segreto della seta. Due monaci nestoriani, di ritorno dalla Cina, portarono a Bisanzio dei bachi da seta nascosti nei loro bastoni di canna di bambù.

Gelso bianco (Morus alba)
Frutto del gelso bianco

La fragola e il corbezzolo erano ritenuti da Plinio lo stesso frutto. Si riteneva che lo stesso frutto crescesse su due piante estremamente diverse: l’una un arbusto, l’altra un’erba. In inglese rimane la tradizione pliniana che non distingue la fragola dalla corbezzola, ambedue dette “strawberry”. Plinio dice anche che il ciliegio era sconosciuto in Italia, prima della vittoria di Lucio Lucullo contro Mitridate nel 74 a.C. cosa difficile da credere. Eppure Lucullo stesso importò il ciliegio dal Ponto (Crimea) …” in 120 anni, – asserisce Plinio – questa pianta ha traversato l’oceano giungendo fino alla Britannia”…

Come omettere le numerose varietà di quercia quando si descrive l’ambiente della Toscana? Oggi neppure una persona educata riconosce una varietà di quercia da un’altra, quando si saprà che in Italia ne sono comuni ben sei varietà molti si sorprenderanno. Plinio inizia il suo resoconto dalle ghiande: “…Le ghiande, ancora oggi costituiscono la ricchezza di molte genti, perfino in tempo di pace. Inoltre, quando il grano scarseggia, esse vengono seccate e macinate in farina da cui si fa il pane… Vi sono molte varietà di ghiande, esse differiscono nel frutto, nello habitat, nel sesso e nel sapore…” (Plinio, Lib.XVI;VI)

Il cipresso, così tipico del paesaggio toscano, è un albero che, come rivela il nome, proviene dal Mediterraneo orientale. Plinio dice che questa esotica pianta è stata introdotta in Italia a fatica.

“Il cipresso – scrive Plinio – è un albero talmente brutto, talmente inutile, che per questo motivo lo

si relega a lato della porta di casa per ricordare i nostri cari scomparsi”… Il paese di origine del cipresso, secondo Plinio, è l’isola di Creta, forse anche Cipro, dato il nome! Forse il cipresso fu importato in Italia verso il V secolo a.C., tuttavia pare che crescesse spontaneo ad Ischia e forse anche a Taranto.

Ontano

Gli ontàni (Alnus) crescevano lungo i corsi d’acqua, come oggi, proteggendo le sponde dall’erosione in caso di piene. Fra questi crescono i più alti pioppi neri, specialmente nella Gallia Cisalpina, la patria dei pioppi. Sono questi alberi autoctoni residui dell’Era Glaciale, che hanno il ruolo insostituibile di rendere meno franosi gli argini di fossi e torrenti.

Ma non sarebbe completa questa breve storia di alberi e piante senza uno sguardo a due essenze importati per le loro associazioni mitico rituali: la mortella (o mirto) e il lauro (o alloro).

Dalla mortella gli Etruschi e i Romani ottenevano sia due varietà di olio e vino, che una bevanda detta myrtidanum.

Mirto

La bacca del mirto veniva usata al posto del pepe prima che questa spezia fosse in uso comune; il salame mirtato non deve essere stato dissimile dal toscano di oggi. Anche questa pianta ha un nome greco, per cui Plinio la ritenne d’importazione. La mortella era una pianta sacra a Venere e dal suo olio si otteneva anche una specie di incenso per i riti religiosi.

L’alloro, o lauro, era assegnato alla celebrazione dei trionfi, ma veniva anche largamente usato nei giardini. Plinio dice che ornava i portali dell’imperatore e del gran sacerdote, appeso in festoni. Il lauro, che cresceva in gran profusione sul Monte Parnasso assieme al bosso, fu consacrato ad Apollo. Tiberio si poneva in testa una corona di lauro quando c’era un temporale, per proteggersi dal fulmine sull’alto della rupe di Capri. Assieme all’alloro, la quercia era ugualmente usata nelle corone onorifiche. Una corona di foglie di quercia pendeva sempre sulla porta di casa di Giulio Cesare. La Corona Civica era di quercia, era l’emblema della clemenza dell’Imperatore. Si adornavano con corone di quercia e alloro le vittime sacrificali e gli officianti il sacrificio, gli eroi, le prore delle navi, gli edifici pubblici ecc. La quercia più usata era l’isco (Aesculum) che lascia il nome a Pian di Scò (Pian d’Isco).

Erano conifere e faggi gli alberi che Plinio il Giovane dice adornavano le vette del Monte Fumaiolo e dell’Alpe della Luna.

Segue:  La genesi del paesaggio classico (quarta parte)

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